Racconta la tua città
Guida Green di un'Italia che non ti aspetti
INDICE:
La mia città
di Luigi Alfieri
Introduzione
Viaggiare contro vento: guida green di un Italia che non ti aspetti
01
#Palestrina #Roma #Lazio
Palestrina (passa e cammina)
di Patrizia Caprella
02
#Milano #Lombardia
Il Verde a Milano
di Maria Castoldi
03
#Genova #Liguria
Km 0 – Genova 2014
di Elisa Marchelli
04
#Gorizia #Friuli Venezia Giulia
Il Ritorno
di Franco Branco
05
#Bivona #Agrigento #Sicilia
Bivona percorso emozionale tra le risorse del territorio
di Emanuele Messina
06
#Cagliari #Sardegna
Lutto e Amore
di Ernesto Pusceddu
07
#Lucca #Toscana
Lucca
di Federica Frizza
08
#Berceto #Parma #Emilia Romagna
Berceto my Love
di Adele Turco
09
#Certosa #Siena #Toscana
La Certosa dei Segreti
di Daniela Cavone
10
#Recco #Genova #Liguria
Recco ha i miei piedi
di Patrizia Balletto
11
#Margellina Napoli #Napoli #Campania
Azzurro e...azzurro
di Clemente Cipresso
12
#Camogli #Genova #LIguria
Camogli
di Gianni Contarino
13
#Vietri sul Mare #Salerno #Campania
Una porta in Paradiso
di Rosaria de Rosa
14
#Centuripe #Enna #Sicilia
La scerra su una Lekane. Breve storia su una decisione grottesca
di Rino Palladino
15
#Bagnacavallo #Ravenna #Emilia Romagna
Non è Bagnacavallo è Bagnocavallo
di Patrizia Carroli
16
#Caslino al Piano #Como #Lombardia
Caslino al Piano: una località nel verde e nella tranquillità
di Paola Verga
17
#Bra #Cuneo #Piemonte
Quattro passi per Bra e...dintorni
di Margherita Corrado
18
#Grugliasco #Torino #Piemonte
In Itinere
di Emiliano Racca
19
#Pomarico #Matera #Basilicata
La musica di Pomarico
di Nunzio Festa
20
#Parma #Emilia Romagna
Attraverso lo scorrere dei passi
di Salvatore Canna
21
#Grosseto #Toscana
Grosseto mia
di Giada Perciballi
22
#Pontedera #Pisa #Toscana
Pontedera: tour imperfetto ed eccentrico nella mia città
di Lucia Stefanini
23
#Santarcangelo di Romagna #Rimini #Emilia Romagna
12 Luglio – Diario di una giornata Slow a Santarcangelo di Romagna
di Rossana Cancellara
24
#Montale #Pistoia #Toscana
Montale my home
di Martina Buracci
25
#Noci #Bari #Puglia
C’era un noce
di Antonella Fiore
26
#Mesagne #Brindisi #Puglia
Torre Guaceto
di Lavinia Vacca
27
#Serrara Fontana #Napoli #Campania
Serrara Fontana
di Lena Iacono
28
#Viareggio #Lucca #Toscana
Non sembra lo stesso cielo
di Serena Barsottelli
29
#Venaria Reale #Torino #Piemonte
Venaria Reale e la sua Reggia
di Stefania Righettoni
30
#Gubbio #Perugia #Umbria
Una passeggiata per quel di Gubbio
di Cecilia Passeri
31
#Ovada #Alessandria #Piemonte
Autunno al borgo di Ovada
di Virginia Stiber
32
#San Sperate #Cagliari #Sardegna
Rivoluzione e favola. San Sperate paese museo
di Marco Dettori
33
#Mirafiori #Torino#Piemonte
Passeggiate per turisti anticonformisti a Mirafiori
di Laura Maria Zanlungo
34
#Val Rendena#Trento#Trentino
Due gemelli tra la Val Rendena e l'Adamello
di Susanna Merzek
35
#Roseto degli Abruzzi#Teramo#Abruzzo
Roseto degli Abruzzi
di Claudia Mattioli
36
#Pisa #Toscana
L'Orzo Bruno
di Giorgio Macauda
37
#Cingoli #Macerata #Marche
Il balcone delle Marche
di Mauro Barbetti
38
#Astino #Bergamo #Lombardia
Il balcone delle Marche
di Francesca Facoetti
39
#Roma #Lazio
Linee Urbane
di Gabriele Salini
40
#Dronero #Cuneo #Piemonte
La mia Dronero
di Daniela Rebuffo
41
#Verbania #Lombardia
Andai per Verbania perché volevo vivere deliberatamente
di Anastasia Cardone
42
#Venosa #Potenza #Basilicata
Nelle terre di un vulcanico silenzio
di Sabrina Merolla
43
#Lecce #Puglia
Respiro piano verso quel sole
di Silvia Guacci
44
#Ostia #Roma #Lazio
Ostia: al di qua del mare
di Sara Terrica e Valeria Durante
45
#Milano #Lombardia
Bisbigli meneghini
di Marco Grippa
46
#Bova Marina #Reggio Calabria #Calabria
Il bisbiglio incompreso di Capo San Giovanni
di Maria Natalia Lirti
47
#Bari #Puglia
Da Bari Vecchia a Lama Balice, il passo e slow
di Silvia Rizzello
48
#Castelletto d'Orba #Alessandria #Piemonte
Cavalcata storica alla ricerca del tesoro tra i misteri dell'alto Monferrato
di Francesca Bertha
Postfazione
Alla scoperta dell'Italia conosciuta
Ringraziamenti
Foto:
#Roma, #Lazio
Uno sguardo a San Pietro
di Gabriele Granata, Roma
#Treviglio, #Bergamo, #Lombardia
30 gradini al di sopra
di Andrea Donghi
#Sferracavallo, #Palermo, #Sicilia
Tra folklore e sacro
di Antonio Aiello
La mia città. Da Omero a Bruce Springsteen. Da Ulisse che naviga tra sirene, ciclopi, maghe, e mostri marini, sempre sognando Itaca, al cantautore che, con la sua voce roca, la chitarra tra le mani, il sudore sulla fronte, canta My Hometown. La mia città natale. In mezzo tutta la storia dell’uomo, secoli di poesia e di cultura, di ballate e di quadri. Di libri e di sinfonie. Ma lei è sempre presente. E’ nel cuore di tutti. Molto amata, un poco odiata, comunque cantata. La mia città. Nessuno resiste al suo fascino. Anche chi come Odisseo, re di Itaca, fedele al motto “Fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguir virtude e canoscenza”, parte alla ricerca di nuovi luoghi e di nuovi saperi, sempre si porta nel cuore la reggia, Telemaco, Penelope, il cane Argo e quell’isola che lo vide bambino. Si divide in due l’anima dell’uomo: da una parte c’è la febbrile curiosità di conoscere, di viaggiare, vedere terre nuove, incontrare altre razze, perdersi nelle stelle di altri cieli; dall’altra c’è il piacere di proteggersi dietro le abitudini più care, i gesti conosciuti, una quotidianità che sa farsi soffice e dolce come lo zucchero filato. La voglia di immergersi nella giungla del Borneo si affianca al piacere di quel caffè bevuto in quel bar spoglio e familiare, al piacere di guardare ancora una volta la facciata di quella chiesa colorata di rosa dal tramonto, di passeggiare su ciottoli di quel borghetto medioevale, di guardare l’acqua del torrente verde in primavera e fangosa in autunno e ascoltare il suo sussurro, di passeggiare nel parco dei duchi dove spuntano i primi bucaneve. Poi ti fa arrabbiare la tua città, la detesti, la maledici. Ti allontani e quando sei laggiù, in quella terra nuova che tanto hai desiderato tra quella gente diversa tanto invocata, ecco che si apre una voragine tra cuore e anima, un buco nero che risucchia i tuoi pensieri: è lei, la tua città. A lei, al modo di viverla da vicino e da lontano, sono dedicati questi racconti, gli ultimi di una tradizione nata con Omero e, con alti e bassi, mai sopita.
Luigi Alfieri
Viaggiare contro vento:
guida green di un Italia che non ti aspetti
In bicicletta sulle dolci colline Toscane, o alla scoperta di angoli verdi nella metropoli Milanese. Un pezzo di costiera Amalfitana che in pochi conoscono, una Rimini lontana dal chiasso delle spiagge. Sono solo alcuni dei 48 luoghi (4 per ogni mese dell'anno) da scoprire (o riscoprire) attraverso questa insolita guida, dove i reporter sono gli abitanti.
“Racconta la tua città”, un concorso per parlare dell'Italia attraverso gli di occhi di chi la abita, e promuovere un turismo alternativo, che non è quello delle grandi città d'arte o dei luoghi del turismo di massa, ma quello dei ritmi lenti dei paesi di campagna, delle tradizioni di luoghi sconosciuti, dei cibi freschi e genuini tutti da scoprire, di un'arte semplice ma caratteristica, che porta con se identità e cultura di chi in questi luoghi ci abita.
I racconti che questo ebook raccoglie, sono storie scritte da tanti cittadini, reporter di un'Italia meno nota e più autentica, innamorati delle loro città, che le descrivono con occhi diversi rispetto a quelli di una normale guida turistica.
Promuovono un turismo all'insegna della sostenibilità, che utilizza mezzi di trasporto lenti e puliti, in grado di ridurre l'impatto del viaggio e nello stesso tempo donare sguardi diversi sui paesaggi che si attraversano, arricchendo l'ambiente, i luoghi e le persone che li abitano. Ma è anche un turismo a Km0, viaggi corti, alla scoperta delle bellezze che nascondono i propri territori e le proprie città, appena fuori dalla porta di casa. Più della meta è importante il viaggio, le persone con cui lo si condivide e il modo con cui ci si mette in cammino, per questo non è sempre necessario andare lontano per conoscere posti nuovi e fare nuove esperienze. Il punto di vista delle persone che vivono quotidianamente questi luoghi è inoltre un valore aggiunto: consigli caldi, ricchi delle emozioni e dei ricordi ad essi legati, che danno colore e incuriosiscono il viaggiatore. Storia e tradizioni si mescolano e ci si ritrova seduti al bar di paese, do ve tutti si conoscono, o a percorrere dei sentieri o a visitare quartieri che mai avresti pensato interessanti...
E se tutto questo è riuscito ad incuriosirti, allora non possiamo che augurarti buona lettura! Mettiti comodo e preparati per questo viaggio, attraverso la nostra bella Penisola, che sembra così nota, ma che in realtà conosciamo così poco.
Palestrina (passa e cammina…)
Palestrina passa e cammina dice un detto , ma non puoi passare senza fermare. Tra vecchi merletti, e mura antica, passeggio tra ricordi passati, presenti e futuri. L’ Antica arte del punto Palestrina ricama intrecci, evocando immagini di mia nonna e delle comari sedute su piccole sediole di paglia nella corte assolata di un estate paesana, riportando nel presente quell’atmosfera mite e tranquilla, rendendola reale, lontana dal caos della capitale che dista pochi chilometri, e di cui nonostante se ne senta la vicinanza non ne subisce l’influenza. Palestrina passa e cammina…cammino tra i vicoli , a volte ombrosi, stretti e silenziosi, di pergole , balconi e cortili fioriti, dove odo l’eco lontano delle voci dei paesani radunati nelle piazze, nei bar, annuso i profumi di sughi caserecci che si diffondono dalle case, dalle numerose trattorie, pizzerie, pub, ristorantini ricavati dai piccoli negozi caratteristici e moderni. Ed ecco che nuovamente antico e moderno si fondono e si confondono senza stonare, anzi creando un armonioso contrasto piacevole alla vista e al gusto.
Palestrina passa e cammina…percorro le antiche vie lastricate della via Francigena e della via Preneste, su cui ancora posso vedere i solchi dei carri e udire il tintinnare delle conchiglie dei pellegrini, rivivere il glorioso passato romano nelle vestigia ancora esistenti nell’imponente Tempio della Dea Fortuna, che troneggia dall’alto su tutto il Paese e ,sembra volerlo proteggere con il suo influsso benevolo. Mai vista Dea della Fortuna più fortunata! esclamò Virgilio ammirando per la prima volta la magnificenza della dimora divina eretta e a lei dedicata. Ed io , paesano, guardandolo dalla finestra della mia casa, tra la nebbia mattutina o i raggi del sole, o passeggiando per le vie, o vedendolo stagliarsi all’orizzonte, imponente, dominatore, dalla strada che percorro al rientro di una giornata faticosa di lavoro, osservandolo pare darmi il benvenuto e mi sento “ fortunato” di aver ereditato tanta bellezza, arte , cultura, e magnificenza.
Palestrina passa e cammina…cammino tra le navate e le cappelle della Basilica di sant’Agapito dove c’è una Pietà incompiuta di Michelangelo, un Museo Diocesano di arte sacra piccolo ma ricco di un dipinto del Caravaggio che evoca il martirio di S. Agapito, della Madonna col velo della scuola del Perugino, e l'Eolo attribuito a Michelangelo, a cui fa eco il grande Mosaico nilotico di un'età’ repubblicana, perfettamente conservato e che tassello dopo tassello racconta il paesaggio esotico del Nilo, e che troneggia nell’ultima sala del Museo della Fortuna, tra corolle di sarcofagi, numerosi reperti: cippi, busti, basi funerarie, statue e oggetti di uso quotidiano provenienti dalle necropoli della città. …Passa e cammino tra le note musicali del maestro Pierluigi da Palestrina e ascolto le note dei rondoni che volano radi tra i tetti e la valle , tra gli schiamazzi e le risate dei bardassi, tra le bande di paese e i cori di chiesa. Odo i rumori degli zoccoli dei cavalli sul selciato durante “Lo palio de sand'Agàbbido” , attraverso le quattro Porte, e tifo per una contrada nella giostra della Scifa, e vinca o no, festeggio gustando un “giglietto”, souvenir di dolcezza e delicatezza, di antica tradizione dolciaria, di cui mia nonna era abile pasticcera.
Palestrina passa e cammina…tra antichi portoni , porte scrostate imbevute di passato, spalancate nei giorni d’estate e chiuse d’inverno, scambio quattro chiacchiere in dialetto con le anziane signore sedute loro davanti, tra vasi di fiori e edera rampicante, passeggio in cerca di ristoro per l’anima mia nel chiostro del Convento di S. Francesco e mi soffermo in religioso rispetto e devozione ad ammirare la sua vita raccontata negli affreschi che lo decorano, respirando l’aria fresca di montagna dello “scacciato”.
Palestrina passa e cammina…cammino verso la Rocca dei Colonna, nella più alta frazione di Castel S. Pietro acropoli della vecchia Praeneste, tra i torrioni di fortificazione, scendo tra le viuzze che come un fiume sfociano nelle piazzette, m’immergo nelle atmosfere da set , che nelle abili mani del grande Regista De Sica divenne Sagliena. Rivivo le rocambolesche vicende amorose del maresciallo (Vittorio de Sica) e la bersagliera (Gina Lollobrigida) in Pane amore e fantasia, mi sembra di vedere la Lollo dalla mitica bellezza, e rido con Totò nel film I due Marescialli (per citarne alcuni) . Mi sento attore anche io nel set meraviglioso e vero, per nulla artificioso dei grandi set hollywoodiani.
Palestrina passa e cammina nella ridente cittadina, uno dei luoghi di più cari all’imperatore Augusto che antiche mura rammentano avesse dimora, nella gentilezza e nel panorama immenso e multiforme dei Monti Prenestini.
Patrizia Caprella
Il verde a Milano
Una delle prime cose che si nota arrivando a Milano sono i palazzi, le strade e il traffico. Solo dopo un po’, quando cade dagli occhi la cortina di cemento, comincia a emergere, come un’immagine fotografica che si sviluppa lentamente, tutta la flora che abita in città. C’è sempre stata ma negli ultimi anni è in continuo aumento per l’interesse e la cura della gente.
Adesso, quando giro in città, non vedo più solo il caos umano, cerco l’armonioso risultato del verde spontaneo o coltivato che è ovunque, e che voglio condividere con te.
Per questo, amico mio, ti propongo un viaggio in bicicletta alla sua scoperta, cominciando da Porta Garibaldi, dove arrivi abitualmente con il treno.
Salendo la rampa da Corso Como, nella nuova piazza circolare sopraelevata Gae Aulenti, ci fermiamo a osservare il bosco verticale: due torri residenziali che ospitano sui terrazzi, oltre novecento specie arboree che assorbono polveri, smog e producono ossigeno.
Da questo punto possiamo vedere il panorama della città con i suoi palazzi simbolo e quelli del Progetto Porta Nuova.
Se imboccassimo il viale pedonale che collega con il quartiere Isola, troveremmo alcuni parchetti interessanti, come il giardino autogestito isola pepe; un piccolo angolo verde nel cuore di Isola nato dalla partecipazione degli abitanti del quartiere e che, trasformato in un rigoglioso giardino, è oggi un luogo di socialità frutto del lavoro di tante persone. Questi giardini si stanno diffondendo sempre più anche a Milano.
Invece proseguiamo sull’altro viale pedonale che, superata via Melchiorre Gioia, si dirige verso Corso Venezia e i giardini Indro Montanelli. Realizzati alla fine del ‘700 con impianto alla francese, sono il primo parco cittadino progettato per un uso pubblico. Fino al 1992 ospitavano lo zoo, con il famoso Giacomo, uno scimpanzé che ringraziava, per le banane e le noccioline ricevute, con smorfie e capriole, ed era entrato nella leggenda con il detto popolare: “l’è brutt come el Giacom!”. Ora i bambini possono visitare il Museo di Storia Naturale e il Planetario e gli animali non soffrono più per la prigionia.
Di fronte al parco, la Galleria d’Arte Moderna ci tenta, meriterebbe una visita, ma noi, con un percorso di poco più di un chilometro raggiungiamo l’Orto Botanico di Brera, un’oasi di pace di cinquemila metri quadri, molto affascinante e nel pieno centro di Milano. Questo giardino storico, gestito e restaurato da alcuni anni in modo conservativo dall’Università Statale, dal 1774 permette ai milanesi una sorprendente sosta all’ombra di diversi grandi alberi, come i due monumentali esemplari di Ginkgo biloba dei tempi della fondazione e tra i più antichi in Europa.
Il silenzio è incredibile, non si ode alcun rumore del traffico, solo il fruscio delle foglie e i canti degli uccelli. Ci si può illudere di essere molto lontani, immersi nella natura e la suggestione si rinnova a ogni stagione: le sue aiuole di piante officinali testimoniano ampiamente il passare dei mesi, e la flora del giardino si veste di colori notevoli, straordinari in città. Sono la testimonianza della forza della natura, della sua voglia di rinascere che dovremmo prendere ad esempio in questi tempi grami dove, anche a noi, servirebbe la stessa energia per ricominciare.
L’orto è a ridosso del Palazzo di Brera che ospita la Pinacoteca, l’Osservatorio astronomico con la cupola dello Schiapparelli e altro ancora; per visitare tutto occorrerebbe una giornata intera e forse non basterebbe!
Concediamoci ora una sosta mangereccia, abbiamo pedalato e il nostro fisico richiede una pausa e nuova energia. Non ho dimenticato amico mio, che sei un intenditore e apprezzi sempre il buon cibo, soprattutto se in compagnia e annaffiato da un vino anche migliore!
Ti propongo la Trattoria del Corso in corso Garibaldi, un locale piccolo ma accogliente, con personale cordiale e cibo delizioso a un prezzo onesto per essere in un quartiere caratteristico del centro storico. Altrimenti a Brera, visto il numero dei locali, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Dopo l’immancabile caffè e quattro chiacchiere occhieggiando le belle ragazze che passeggiano durante la pausa pranzo, inforchiamo le bici per procedere nell’itinerario.
Ci attende, vicino al Castello Sforzesco, il Parco Sempione all’interno del quale sono presenti edifici importanti: il Palazzo dell'Arte, l'Arena Civica, la Torre Branca, e le opere di scultori famosi come De Chirico e Barzaghi.
La flora del parco è molto ricca e varia: dai faggi penduli a diverse varietà di cedro e gruppi di querce rosse; e poi tassi, cipressi calvi, pini, faggi, ginkgo, ontano nero, diverse varietà di aceri… e molti altri alberi e arbusti.
Iniziamo pure a pedalare a caso tra i viali come piace a te, ma poi andremo dal grande ippocastano nei pressi del Ponte delle Sirenette e infine a salutare il vecchio olmo monumentale che cresce sul belvedere, di fronte alla statua di Napoleone III. Quando lo guardo, rimugino su tutte le cose che ha visto: era qui all’epoca degli Sforza, della dominazione spagnola e all’arrivo di Napoleone.
Lo so perché ridi: pensi che stia facendo tutta ‘sta manfrina storica quando invece ho in mente solo Adriana, la più bella della classe. Sì, è successo proprio qui, sotto le sue fronde. Era primavera, avevamo sedici anni e all’uscita dal liceo l’ho invitata a passeggiare tra le azalee fiorite. Mentre lei ammirava la bellezza e la perfezione dei fiori, io contemplavo lei. Sorrideva parlando. Le sue labbra erano dello stesso colore delle rose antiche, non vedevo altro e sentivo solo il desiderio di baciarla. Erano morbide quando le ho sfiorate e dolci quando, con coraggio, l’ho fatto. Lo schiaffo secco mi ha colpito la guancia con forza. Inviperita e senza una parola se n’è andata.
Che bisogno c’era che tu lo raccontassi a tutta la classe? Mi avete preso in giro per anni! Io invece ho pensato a lungo a lei ma avevo esaurito ogni grammo di audacia per avvicinarla ancora, non per il dolore dello schiaffo ma per quello del rifiuto che lo muoveva.
Dai, basta ricordi, continuiamo la nostra pedalata.
Tornando verso la stazione di porta Garibaldi, ti propongo di fermarci al Cimitero Monumentale, per una breve passeggiata a piedi per sgranchire un po’ le gambe. Entriamo nel Famedio, il Pantheon dei milanesi illustri, dove riposano personalità storiche e artisti di fama internazionale come Manzoni, Jannacci e Franca Rame, per un piccolo assaggio di questo luogo che è un vero e proprio museo a cielo aperto, ricco di capolavori artistici. Purtroppo dobbiamo andare, è tardi, rischi di perdere il treno.
Caro amico, abbiamo visto solo una minuscola fetta del verde in città; se ti è piaciuto, concordiamo un appuntamento in primavera alla periferia nord di Milano, per pedalare nel parco di Villa Litta, piccolo, curato e molto frequentato dagli abitanti di ogni età. La mattina il gruppo di cammino lo anima con il cicaleccio tipico del ritrovo tra amici, il pomeriggio le associazioni propongono corsi vari e i bambini vivacizzano i giochi.
A pochi metri c’è il parco del Paolo Pini con il Giardino degli Aromi, gli orti condivisi, le galline e i conigli di Aurora e il nuovo parco Oltre il Pioppeto, ancora in formazione grazie alla mobilitazione dei cittadini dei quartieri limitrofi. È poco frequentato per la mancanza di percorsi segnati, ma se si penetra tra i boschetti con piante da frutto, reperti vegetali residui, coltivati in passato dagli ospiti del vecchio ospedale psichiatrico Paolo Pini, si trova qualche insediamento abusivo, capanne costruite con materiali di recupero, abitate da senzatetto desiderosi di avere qualcosa da chiamare casa.
Infine verso sera potremmo raggiungere il Parco Nord entrando da Bruzzano, e lì ti stupirai per un incontro speciale: le lucciole, quelle vere, non sono un miraggio, abitano davvero in città e… non voglio anticipare altro, ho già detto troppo.
Milano ha ancora tante belle sorprese verdi per chi ha voglia di vederle!
Ti aspetto.
Maria Castoldi
KM0, Genova 2014
Non avevo ancora deciso niente per quest’anno, nessuna vacanza programmata. Mi son ritrovata da sola in città, a Ferragosto.
Decido di andare a mangiare alla trattoria cinese così , per cambiare un poco perché è economica, sono veloci a servirti , e anche se da sola, non mi sentirò a disagio.
Dopo il lauto pranzo di riso al curry, come predisposto, da programma, mi avvio per le vie di Genova gremite di stranieri e tra i loro tipici localini ricchi di cibi e pietanze etniche. Via Gramsci alle tre del pomeriggio brulica di stranieri: cinesi, africani, indonesiani..
Passo davanti ad un supermercato che vende prodotti orientali, da tempo passavo lì davanti in autobus ed ero spinta dalla curiosità di entrarci prima o poi...colgo l’occasione e mi avvio; entro.
Sulla soglia mi invade un profluvio di spezie orientali tra cui cumino , curry, zafferano; la mente e il cervello ne vengono sopraffatti , una strana euforia speziata mi pervade e stimola.
Esposte su altissimi scaffali, in grande disordine, si scorgono lattine di bevande dai nomi esotici. “Succo di basilico? Che cos’è? Succo di angelica? cosa? non sapevo che dell’angelica esistesse il succo? Sarà bio? Latte di cocco, avocado ”.
Svolto nel reparto prodotti sudamericani…pannocchie di mais nero dai chicchi enormi, mais rosso, e il classico mais giallo.
Girando ancora tra i corridoi mi trovo nel reparto prodotti orientali…dove buste enormi di spezie di ogni tipo, funghi stranissimi ,mucillaginosi mi guardano immersi in salse e salamoie sconosciute , cavalco lenta i reparti affascinata stordita spintonata da avvezzi e pratici avventori locali che si scambiano dettagli nella loro lingua e io mi sento così straniera
… vorrei tanto chiedere, sapere tutto di ogni cosa .. che cos’è ? ma come si usa ?e si cucina, lo mangiate davvero? rimango ammutolita ..chiusa nel limite del mio italiano e basta.
Nel reparto africano riso rosso, farina di tapioca , acciughe secche, platano… a prezzi minimi.
Esco divertita, sazia di emozioni nuove e con la curiosità ripagata, pallida di sorpresa!
Non faccio in tempo a riprendermi che scivolo accanto a una bancarella che vende vesti indiane: una donna bellissima in sari, con anellino al naso e cerchio rosso dipinto in fronte siede accanto, sfinge immobile, la bellezza negli occhi neri di kajal, un bambino le corre indietro, avanti mentre il marito mercanteggia sui prezzi coi clienti... la femminilità immobile
..e senza accorgermene, invasa da un odore nauseante di fritto, oltrepasso un McDonald lì accanto. Dentro girano indiani in turbante con hamburger, africani con patatine, bambini tra i tavoloni ridondanti di vassoi e confezioni abbandonate ..l’azzeramento delle diversità etniche il livellamento delle culture e dei sapori ad un unico standard globale… triste.
Decido di riposare un poco su una panca all’ombra, vicino all’acquario, meta di turisti più facoltosi, sede del cosiddetto turismo organizzato occidentale.. Distesa sulla panca, in preda ad un’afa atroce e stanchezza globale, mi accorgo che due turisti si son seduti accanto a me in panca e stanno leggendo la descrizione del Bigo (l’ascensore panoramico di Genova ) in tedesco.. ascoltando mi immedesimo in loro e vedo coi loro occhi la mia città di tutti i giorni, assaporo la loro sorpresa, tutto sembra nuovo con loro, mi riapproprio dei monumenti in una nuova veste.
Mi guardano e mi chiedono come giungere al famoso museo del mare, il museo del mare? È qui dietro, ma sulla cartina non lo troviamo, pare lontanissimo eppure gli dico nel mio bellissimo inglese appreso con ben tre anni di Londra, è li dietro, proprio lì!!!
Son felici di saperlo, mi dicono essere di ???? (non colgo bene il nome della città in tedesco ) ma capisco essere nella zona della foresta nera, arrivano da Lerici dove dormono in bed and breakfast, rientreranno in serata. Perché vedere il museo del mare? Intervengo, guida accreditata!!! è moderno, carino ma...
Cosi gli propongo un ‘itinerario alternativo: immergersi nei prodotti locali che possono acquistare nelle varie botteghe e intanto rilassarsi, fiera delle mie origini piemontesi barra genovesi decanto inoltre gli allori del tartufo nelle langhe, del vino nel Monferrato, del cioccolato con le nocciole….
E li devio verso la via Garibaldi , centro di musei ricchi di storia ..io mi sento molto guida turistica, rimpiango di non essermi fatta avanti per uno scambio solidale in Germania .. mi chiedo perché i tedeschi paiano cosi rilassati di fronte a dei genovesi sempre di corsa e bigi .. sarà il benessere? Chiudo la mia giornata. Pensavo sarei stata sola in giro con tanta noia dentro nel cuore, e mi son trovata in una nuova terra, turista locale, guida per stranieri, straniera sulla mia panca genovese...e ho risparmiato un viaggio! km zero!
Elisa Marchelli
Il Ritorno
Tanti ricordano una periferia, una strada, sia essa una Via Pal, una Via Gluk o qualcosa di più anonimo.
Io rivedo una distesa di campi che difendeva il borgo dal progressivo dilagare del cemento della vicina città. Filari bassi di gelsi dalle foglie carnose e carichi di more d’estate, si perdevano all’orizzonte in questa e quella direzione, e davano un senso di familiarità al paesaggio.
Presso il “ Pastificio Mulinaris “, che poteva ben figurare sulla copertina di un LP dei Pink Floid per la bella ciminiera in mattoni rossi, un folto pioppeto fiancheggiava la statale che diveniva Via Veneto in corrispondenza della targa “ Cussignacco “, riferimento ultimo per le magistrali “ staccate “ del Sig. Enzo, pilota provetto ed emulo inveterato del meno noto Steve Mc. Queen.
Lungo quella strada sfilava tutto il paese, anche più volte al giorno: il medico condotto in motorino, perché privato della patente in circostanze misteriose, l’appuntato Mario “ lo smilzo “, l’Anita, la Signora Mentana e mio padre in bicicletta, nonché il Maggiore C. con la sua FIAT 1100 … ed un signore in carriola trascinato dalla moglie il sabato pomeriggio dopo la solita sbronza.
In quel contesto pittoresco una piccola roggia senza pretese faceva la sua parte: la poca acqua scorreva sotto i ponticelli delle prime case per raggiungere, più in là, il centro del paese e proseguire oltre sino al mare, senz’altro, come ogni corso d’acqua che si rispetti.
Erano gli anni 60 – 70 e si parlava appena di elettrodomestici; le massaie del vicinato si alternavano al “ lavatoio “ in cemento che pescava nella piccola roggia per fare il bucato: battevano e sciacquavano i panni per delle ore, poi mettevano tutto a stendere ed era uno spettacolo, soprattutto con il vento che dava vita a calzetti e mutande, camicie e fazzoletti … spargendo negli orti una buona fragranza di sapone.
“ … non toccate i panni … “ urlavano ai bambini che giocavano da quelle parti, “ … non tirate quei fili … “ sbraitavano allarmate mamme, nonne e sorelle, e tutti fuggivano, oltre le reti in fondo, nella “ stradina “, scenario privilegiato di battaglie a suon di bastonate, sassate e quant’altro. Per fortuna, nonostante la violenza di quegli scontri, nessuno si faceva troppo male, solo qualche graffio ed abiti strappati! La nostra piccola roggia rivestiva, quindi, una funzione importante nell’equilibrio socioeconomico delle famiglie del vecchio cortile ed era anche fonte di nuovi giochi sui ponticelli o lungo le brevi rive erbose: “ … non sporgetevi, non bagnatevi … “ urlavano ancora mamme, nonne e sorelle, ma nessuno le ascoltava per poi buscarle, ovviamente, a casa.
E quell’estate successe qualcosa di inaudito: sospesero il flusso insopprimibile della piccola roggia per bonificarne il letto invero colmo di ogni “ ben di Dio “. Così apparvero bottiglie, scarpe, barattoli, ombrelli, ferri vecchi … di tutto e di più! Le massaie si lamentavano per il bucato, Mario “ lo smilzo “, mio padre ed Enzo Mc. Queen per l’impossibilità di innaffiare gli orticelli, ma noi bimbi eravamo felici di “ razzolare “ tra fango, alghe marce e rifiuti vari alla ricerca di chissà quale tesoro.
E fu così che, curiosando sotto un ponte dove si era formata una vasta pozzanghera, qualcuno gridò: “ … l’acqua si muove, c’è qualcosa nell’acqua … “ In un baleno accorsero tutti con secchi e badili, forconi e rastrelli che sembrava una rivolta feudale contro il Maggiore C., il Parroco Don Santo Sant, il fornaio in piazza …“ … batti col badile … “ … tira la pietra … “
“ … infilza … “
Tanto fecero che catturarono … un’enorme trota arenata, spiaggiata come una balena sotto il ponte.
Mentana ballava ad onta dei calli, mia madre accendeva già il gas della cucina, Enzo si faceva fotografare come Hemingway accanto alla preda e fu una festa corale del vecchio cortile! Sì, fu una grande festa per tutti noi e se ne parlò ancora, la sera, prendendo il fresco sui gradini di casa. Questo succedeva “ nell’era del cinghiale bianco “, quando si vedevano appena TV e lavatrici, frigoriferi e spremiagrumi … e dopo cena c’era sempre tempo per fare due chiacchiere con i vicini. E poi?
Tempo fa sono tornato da quelle parti ed ho cercato la piccola roggia, la “ stradina “ di allora. A fatica ho scoperto un nastro d’asfalto al posto dei ciottoli e dei ciuffi d’erba sui quali correvo, nuove case, muretti, reti e cancelli senza sosta al posto del mare d’erba che ricordavo: piccole prigioni, anonimi cortili vuoti, oramai, … tutti sono partiti e resta solo il vento tra le foglie argentate del vecchio pioppeto, con le sue storie di bimbi, mamme, nonne e sorelle, comici personaggi e semplici eroi di tutti i giorni. Se passi di là, fermati un attimo, chiudi gli occhi e sogna anche tu la piccola roggia di allora, una “ stradina “ e vecchi cortili …
Franco Branco
Bivona, percorso emozionale fra le risorse del territorio
Spostarsi per studio o lavoro è diventata oggi una consuetudine: è sempre più frequente lasciare la propria città di origine verso mete più note o blasonate. Più raro è invece ritrovare quello che stavi cercando proprio dove non te lo aspetti, ovvero in un uno sperduto paesino della collina siciliana. Con questi presupposti decisi di trasferirmi per motivi di studio a Bivona, piccolo centro della provincia di Agrigento, noto ai più per la coltivazione delle pesche. Amici conosciuti all’università, mi avevano già ospitato nel loro paese proprio in occasione della Sagra della pesca. In quei pochi giorni d’Estate vidi la città immersa nell’aria della festa, piena di gente, caotica e ricca di suoni e profumi lasciandomi uno splendido e felice ricordo. Non sapevo però come Bivona mi avrebbe accolto anni dopo in una piovosa mattinata di Aprile.
Partiti in auto da Palermo, ci siamo immessi nella Strada Statale che collega il capoluogo con la città di Agrigento: un’asse che attraversa la Sicilia da nord a sud collegando una costa all’altra scavalcando i Monti Sicani, uno dei polmoni verdi dell’isola. Il viaggio evidenzia sin dalle prime battute i contrasti della Sicilia: lavori in corso e traffico si alternano a paesaggi incantevoli e paesi incastonati nella pietra. Il sole si fa strada fra le nuvole e illumina il verde dei campi coltivati che muta nel viola della sulla, poi nei marrone dei filari di viti e poi nel colore vivo della terra in attesa della semina. L’arrivo al paese è preceduto dalla vista di un lago artificiale, che contribuisce a creare un mosaico di paesaggio diverso ad ogni curva. Al nostro arrivo ci rechiamo subito alla casa che ci ospiterà per i prossimi mesi. Facciamo in fretta amicizia con la nostra nuova vicina di casa e il suo amatissimo “gatto da guardia” che dorme sul tappeto davanti la porta. Svuotata la macchina dai numerosi bagagli, ci apprestiamo a invadere una casa davvero speciale per degli architetti come noi: le stanze e i bagni sono distribuiti infatti su due piani sormontati da un piccolo terrazzo, mentre al soggiorno e cucina del pian terreno si accede attraverso una scaletta percorribile solo abbassando la testa fino a circa un metro e mezzo. Il tutto è molto strano, ma a noi è subito piaciuta forse proprio per la sua particolarità.
Inizia quindi questa nostra avventura a Bivona, bellissima cittadina medievale con strade tortuose e sorprese ad ogni angolo. Sono tantissime infatti le chiese disseminate per la città e che fanno da cornice a piazzette e slarghi popolati da vasi e fontane. Per l’appunto questa è una zona ricchissima d’acqua potabile e il paese non può che valorizzare questa risorsa. Incontriamo finalmente Andrea, uno degli amici conosciuti anni fa, e che sarà il nostro “primo contatto” con la città e le sue tradizioni. Una di queste è proprio legata all’acqua; quello che è considerato l’ingresso del paese è infatti una piazza con una fontana con doppio rubinetto. Bere l’acqua dei “cannulicchi” è quindi una tappa obbligata per chi arriva in città per la prima volta, soprattutto se vi giunge con l’intenzione di viverla a pieno. L’acqua è fresca e dissetante e ci viene confidato che, otturando con le dita uno dei cannulicchi, si influenza la portata del getto di un’altra fontana vicina. Questa piazza è molto nota ai bivonesi soprattutto perché vi è la fermata del pullman che consente l’accesso ai numerosi studenti che ogni giorno popolano gli istituti superiori della città. Da qui si dirama Via Roma, l’asse principale della città. Oggi però non è una giornata come tutte le altre: un negozio si appresta alla sua inaugurazione e la nostra presenza si nota meno immersa nella gente. Molti infatti ci osservano incuriositi non trovando in noi dei visi familiari, ma che nei prossimi giorni non noteranno più.
Dopo aver pranzato in fretta con i panini decidiamo di organizzare una grigliata per cena. Conosciamo benissimo quanto la Sicilia interna sia ricca di risorse enogastronomiche così abbiamo chiesto a dei colleghi di Cammarata, città vicina, carne di maiale e salsiccia. Questa sera vogliamo infatti sfruttare il terrazzo per cucinare lì la carne e ci servirà quindi del carbone per la grigliata. Continuiamo il nostro giro a piedi per il centro diretti verso un negozio di ferramenta. L’anziano gestore ci informa che dovrà prendere il carbone al magazzino nell’attesa quindi visitiamo la vicina chiesa dalle bianchissime pareti e dal forte odore di incenso. Proseguiamo il nostro giro acquistando del buonissimo pane di grano duro facciamo così la conoscenza della signora Meluccia, che gestisce un piccolo supermercato con ottimi salumi e formaggi locali dai prezzi bassissimi. Fra questi apprezziamo subito la ricotta e il pecorino provenienti dai paesi vicini. Il nostro tour prosegue verso il campo sportivo, ma prima non possiamo non soffermarci ad apprezzare i resti del portale Chiaramontano, unico superstite della Chiesa madre trecentesca. Il rosone vuoto si lascia dolcemente attraversare dalla luce del pomeriggio mentre le precise decorazioni gotiche spiccano per il contrasto con l’opera in rovina usurata dal tempo. La strada continua sotto un antico ponte in pietra e giunge all’ampio campo in cui numerosi bambini corrono e giocano sotto il sole che si appresta a tramontare.
Ultimo tassello per la cena è il vino. Riusciamo ad avere il contatto di un agricoltore del paese: prendiamo appuntamento e lo aspettiamo al suo magazzino. Dopo qualche minuto di attesa giunge un uomo dal viso bruciato dal sole e dai vestiti sporchi di terra. Ci accoglie nel buio magazzino e assaggiamo così il suo vino conservato in botti di rovere: è un rosé ricco e corposo che trasmette tutte le qualità del paesaggio agrario dei Monti Sicani e la sapienza della coltivazione di una volta. Orgoglioso del suo vino, ci mostra l’aceto che da questo ottiene. L’odore fortissimo, acre, quasi piccante è diverso da qualsiasi altra cosa abbia mai sentito. L’apparente scorza dura del contadino, lascia lo spazio alla cordialità e chiacchierando si finisce per scambiarci ricette e consigli sui piatti. Fra questi impossibile dimenticare quelli riguardanti le acciughe da accompagnare con olio d’oliva, aceto e pane. Prima di tornare a casa passiamo dalla piazza belvedere, un grande slargo lastricato che si rivolge alla vallata con una splendida vista sul lago. Scherzosamente lo paragoniamo a uno dei classici “lungomare” cui siamo stati abituati, ma all’interno della città è uno spazio urbano che assume diversi ruoli. Notiamo infatti adulti e anziani che passeggiano, ragazzini che giocano a calcio o alle vicine giostre, mentre osserviamo alcuni bambini durante una lezione di judo che si tiene in una sede del Comune che si affaccia sulla piazza. Intanto il sole è definitivamente tramontato: il paesaggio si trasforma e della vallata si riconoscono soltanto le luci di Alessandria della Rocca, vicino paese adagiato fra le colline.
Ripercorriamo così l’asse cittadino verso casa, fino a Piazza Castello dove gli ultimi resti della struttura danno il nome allo spazio urbano. Assaporiamo la cena che rappresenta così un gustoso percorso all’interno della città, del suo comprensorio e dei suoi abitanti. Un viaggio, che nonostante si sia svolto a piedi, allarga gli orizzonti includendo tradizioni, cultura e paesaggio. Bivona abbraccia così l’intero territorio e ci accoglie definitivamente con una fresca serata passata fra le sue strette e sinuose strade, le sue piazze scenografiche, le sue chiese intorpidite dal giallo delle illuminazioni, la sua gente simpatica e cordiale. Non dimenticammo quella notte, che segnò il nostro inserimento in un contesto poco conosciuto, ma che merita di essere valorizzato e inserito in circuiti più ampi. Reti che lo possano rendere capace di accogliere turisti che abbiano la volontà di vivere il viaggio come esperienza multisensoriale in grado di cogliere e apprezzare interamente le ricchezze della nostra terra e della nostra cultura.
Emanuele Messina
Lutto e amore
Esco in cortile e mi dirigo alla nostra vecchia Uno nera. Apro lo sportello e subito viene fuori un odore familiare, il sole estivo riscalda quei vecchi interni facendo sprigionare tutta la loro età e il loro vissuto, fatto di campagna, amore e sterpaglie.
Parto mentre comincio quella sauna familiare e quanto mai rassicurante; esco dal cancello e mi dirigo verso la piazza. Percorro la breve stradina che conduce al semaforo di piazza, niente sembra cambiato, oggi come allora non vi è nulla da ammirare, nessuna casa medievale, nessun monumento degno di nota. Vi sono solo case, costruite ognuna secondo il gusto discutibile dei suoi abitanti o secondo imposizioni di spazio. Sono così vicine e spesso infossate all’interno di altri cortili, che appare inutile parlare di privacy, annichilita ulteriormente dalla sentinella compiuta dagli abitanti. Arrivo al semaforo, è rosso; sulla mia destra ragazzi e ragazze chiacchierano, non sono forse le persone che mi stanno più simpatiche ma noto con piacere che qualcuno ancora mi saluta mentre altri non l’hanno mai fatto. Scatta il verde e giro a destra, verso il centro del paese. Percorro la strada e sulla mia sinistra incontro il vecchio bar di ziu Giovanni. Mi vengono in mente le serate passate in quel bar ai tempi delle superiori, nel cortile sul retro. Ricordo l’odore di olio che impregnava le stecche di quel biliardino consunto, ricordo l’olio giallo sprigionato dalle sigarette poggiate sul metallo durante la partita. Ricordo con nostalgia quando io e il mio amico Andrea, allora sedicenni, vincemmo contro ragazzi più grandi una partita lunghissima e bellissima. Mi scappa un sorriso, ma è il tempo di un soffio e vedo sulla mia destra la bellissima chiesa del mio paese.
In quel posto ci passai anni agrodolci, facevo il chierichetto insieme ad almeno altri 10 ragazzi del mio paese, compresi i miei amici. Eravamo quasi tutti assidui frequentatori, facevamo numerose messe, giocavamo a calcio nell’oratorio e rubacchiavamo qualche osti non consacrata. Ho fatto in quel posto qualsiasi funzione religiosa, ma non dimenticherò mai che la maggior parte di queste erano funerali. Con il tempo diventò sempre più normale assistere allo spettacolo del dolore pubblico, solitamente esibito da donne anziane e di mezza età vestite a lutto; non capivo, nonostante i miei 9-10 anni, perché mai dovessero urlare con tanto poco ritegno, esibendosi come uniche portatrici del dolore del lutto; erano urla strazianti che sapevano solo di rimorso. Prima, dopo e durante il seppellimento il nostro parroco non ci sensibilizzava particolarmente al silenzio, piuttosto ci premiava facendoci tornare in chiesa nel retro del Fiorino del becchino, dove vista la mancanza di luce, ci divertivamo a urlare e spintonarci; era in quel viaggio che si perdeva il significato della morte, quella diventava solo l’ennesima messa e l’ennesima funzione, l’ennesimo dolore per qualcuno ma non per noi, era come se fossimo spettatori e attori passivi della vita d’altri; uno sguardo triste era ciò che ci restava all’uscita del cimitero, poi solo gioventù.
Proseguo il mio percorso dirigendomi verso la stazione; le tre piazze sono semi deserte, è un normale primo pomeriggio in Sardegna. Passo di fronte alla vecchia casa dei miei nonni materni, dove mio nonno è morto dopo una dolorosa malattia affrontata senza emettere un gemito. Erano pochi anni fa, erano gli anni in cui ancora volevo bene a mia nonna, prima che la malattia di nonno le facesse togliere quella maschera di buonismo che teneva su da tutta la vita. Quella casa è nella mia mente come un semplice odore di umido e stantio.
Le sbarre della ferrovia stanno chiudendo, probabilmente per i loro soliti 20 minuti, posso girare a destra nel vialone alberato della lunga viale Repubblica, lanciando uno sguardo nostalgico a quella stazione. Per cinque anni vi ho preso il treno per andare alle superiori, in quel puzzo di carburante,con le sue stupide obliteratrici perennemente rotte e quel suo sottopassaggio inutile, visti i due soli binari presenti.
Viale Repubblica non è cambiata, vi sono le palme che perdono i loro frutti riversandoli su strada e aiuole. I vecchi seduti sulla panchine al fresco girano la testa per vedere chi sta passando a quell’ora, vedo mio zio, saluto e proseguo lentamente il mio percorso fino alla fine della strada nel quale svolto a sinistra.
Il paesaggio che mi si presenta davanti mi fa ricordare che è giovedì, la giornata del mercatino paesano. Scendo e mi dirigo verso le bancarelle, mi muovo tra la gente riconoscendo i visi di venditori e vinti, respiro il forte odore di verdure fresche e noto che le signore ancora rovistano vigorosamente tra le verdure come se stessero cercando l’oro. Ciò che non resiste è invece l’usanza, le bancarelle sono sempre meno e con venditori seduti su scomode sedie pieghevoli; anche i miei concittadini iniziano a preferire i centri commerciali. Proseguo e vedo una via, allora torno veloce alla macchina, faccio il giro dell’isolato e vi ci entro da dietro, guardo la casa dove abita lei, il portoncino bianco dal quale usciva in ritardo mentre io l’aspettavo impaziente su quella stessa odorosa macchina. Non è più un ricordo doloroso, appare ormai così lontano da sembrare finto, costruito e modificato perché ripensato troppe volte, e per cui non più attendibile; ah com’è difficile certe volte mantenere vivide le immagini nella nostra mente, per fortuna ci sono gli odori.
Quello che sento passando di fronte a quel piccolo parchetto è un misto di erba bagnata che si sta asciugando sotto il sole cocente e sterpaglie gialle ormai bruciate dalla stagione. Sento –nella mia mente- anche l’odore delle notti d’estate passate con lei su quel prato, il suo odore, l’odore dell’umido notturno quanto mai rinfrescante che accompagna le nostre chiacchiere; mi sembra di sentire sulla pelle quell’erba pungente, quelle dolci carezze. Con la stessa nostalgia costruttiva sorrido e vado avanti, giro a sinistra, in questa via abita una mia zia paterna, vedo la casa e ripesco un ricordo.
Era il 2003 e ancora ero un chierichetto quando morì mio zio, del Grande male. Pochi anni prima era morta una sorella di mio padre e ricordo quell’episodio come spiazzante; per mio padre e le sue sorelle e fratelli, fu un momento di riconciliazione dopo anni passati in silenzio a causa di litigi familiari. Non cambiò molto con la morte di mio zio, mangiammo per un mese a casa di mia zia solo per farle compagnia, a un certo punto cominciò a sembrare una festa e fu il punto nel quale mi resi conto che c’era stato fino ad allora qualcosa di sbagliato nella mia concezione del lutto. Fu la prima volta che persi una persona davvero cara e iniziai a odiare quello scorrere di belle parole, capii che tutti i funerali a cui ero stato avevano provocato dolore a qualcuno, un dolore intimo che non necessitava di troppe parole, fiori cari e frottole ipocrite di chi si vuole redimere. Fu subito dopo che smisi di fare il chierichetto, anni dopo riscoprì il dolore venendo colpito dalla morte improvvisa della nostra catechista, vista con la sincerità che poteva contraddistinguere solo i miei coetanei, dal cuore ancora sincero.
Imbocco nuovamente lo stradone principale e raggiungo il lato opposto del mio paese, facendo la strada usuale che porta verso casa. Niente è cambiato dopo tre anni, le signore stanno ancora nella strada per controllare i passanti, spogliando chiunque dei suoi indumenti e dei suoi stati d’animo; mi convinco ancora una volta che non è questo ciò che voglio. Nonostante questo è comunque il posto dove sono cresciuto, dove ogni odore mi riporta a ricordi e sensazioni, momenti felici di gioventù tra gli argini dei fiumi, momenti tristi di insicurezza e voglia di essere qualcuno tra tutti quei ragazzi, momenti di vita sfumati ma incancellabili.
Arrivo a casa, il mio cane mi fa le feste, mio padre mi da abbraccia e scherza con me, mia madre ride ed è felice, come posso non esserlo anch’io?
Ernesto Pusceddu
Lucca
Questa storia inizia dalla fine, da una tiepida mattina di Maggio quando la signora si annodò il vecchio foulard color crema intorno al collo e uscì per la solita passeggiata sulle Mura. Scese lentamente le scale della sua casa in città, attraversò il Fillungo interrompendo una ordinata fila di bambini in gita con i loro cappellini gialli, che come tante paperelle cercavano di star dietro alla maestra. Tagliò per Via Santa Lucia, con l'intenzione di comprare un po' della focaccia più buona della città. Uscendo dal forno passò davanti ad un calesse in attesa di un nuovo giro turistico e finalmente arrivò sulle mura, proprio davanti all'antico Caffè appena restaurato. Si diresse verso sinistra, in senso antiorario, in modo che l'ombra dei grandi platani la riparassero dall'intenso sole di mezzogiorno.
Mezzogiorno! Era molto tardi, il ritmo pacato della città in quella mattina l'aveva resa placida, l'aveva distratta dalle solite commissioni ed era evidentemente rimasta troppo a lungo ad ammirare le nuove vetrine di stagione e a ricambiare sorrisi conosciuti, anche solo di vista. La fame la sorprese proprio quando il suo sguardo cadde su una panchina vuota all'ombra degli alberi. Si sedette e morse la focaccia appena acquistata. Anche senza occhiali, si compiaceva del panorama al di fuori della città, quando una bicicletta le si avvicinò da dietro, rallentando con uno stridulo rumore di freni non oliati. Il conducente scese ridendo, probabilmente per la fragorosa frenata, e senza voltarsi le chiese di potersi sedere vicino a lei. Lei acconsenti con garbo e la risata di lui si fece ancora più forte mentre appoggiava la bicicletta all'albero più vicino: “Vedendoti qua, mi sono accorto di come tu non sia cambiata affatto in tutti questi anni, persino la tua voce è rimasta la stessa”. La donna lo scrutò con attenzione e finalmente l'uomo si voltò. Sul viso di lei apparve un sorriso commosso. “Anche il foulard, ti dona ancora come quella mattina di Maggio in cui ti ho sposata”.
Federica Frizza
Berceto my Love
Le previsioni del tempo avevano annunciato pioggia e freddo per sabato 20 Marzo 2014, ma scorgevo a tratti tra le bigie nuvole cinerine filtrare sprazzi di un sole brillante che rischiarava le strade di Berceto, avvolta nell’aria tersa e frizzante del mattino. Camminavo con disinvoltura per il largo viale alberato, immersa nella piacevole sensazione della “sorpresa” che il bel tempo mi aveva regalato in occasione del mio quarantesimo compleanno. Ascoltavo deliziata il fremito tenue del vento primaverile tra l’ombroso fogliame dei platani. Volevo,come prima tappa, passeggiare per le strade del centro osservando sia le costruzioni moderne che le bellezze architettoniche d’un tempo..Nel ripercorrere, quest’ultimo snodo della via Francigena mi sentivo come un pellegrino in cerca di pace .Da un dedalo di vicoli,sbucai nella piazza antistante il duomo,che ricordavo nei minimi dettagli per quante volte solevo soffermarmi di fronte alla facciata anteriore,catturata dall’imponente bellezza della costruzione In particolare mi affascinava la solenne configurazione architettonica della lunetta del portale con le sculture pre-antelamiche del XII secolo, che raffigurano le immagini di Cristo in croce con gli occhi aperti,vincitore sulla morte .E che dire del prezioso calice,splendente nella diafana trasparenza del vetro sottilissimo, qui custodito?Secondo la leggenda pare si tratti del Santo Graal, rimasto intatto nei vari spostamenti durante le invasioni longobarde grazie agli interventi miracolosi del patrono di Berceto,San Moderanno,e di San Remigio.Quante suggestioni religiose e culturali s’innestano nella trama avvincente della storia del mio paese!Proseguii alacremente a camminare per giungere fino all’arteria che lambisce i ruderi del castello della nobile famiglia Rossi,anch’essa oggetto di leggende interessanti. Tornata in Italia, a distanza di dieci anni, assaporavo la gioia del ritorno. Mi ero stabilita in America per necessità, ma neppure il diavolo in persona sarebbe riuscito a sradicarmi dalla mia terra. Mio malgrado avevo dovuto trasferirmi dopo il fallimento del nostro antico laboratorio d’oreficeria. Nel tentativo di risollevarmi dalla crisi finanziaria vendetti casa e podere per non soccombere ai creditori che, dopo la morte dei miei genitori, non mi davano tregua..Non riuscivo ad adeguarmi alla nuova realtà e trascorrevo le ore al laboratorio”Golden” a rimuginare il passato mentre ero china sul bancone da lavoro ad eseguire i manufatti d’oro commissionati. Il caporeparto controllava se quel che andavo realizzando corrispondesse alle prerogative richieste e,accortosi ch’ero zelante mi affidò incarichi di maggiore responsabilità. Nel giro di alcuni anni il direttore ebbe apprezzamenti positivi nei miei confronti perché lavoravo alacremente, tanto che fui promossa al grado successivo nello staff dell’art-director. Tutto andava a gonfie vele, ma quella vita alienante non mi andava a genio. Non c’era tempo di svagarsi e i giorni mi crollavano addosso come cenere di vulcano che tutto copre. Alla base dei miei problemi c’era il fatto che non riuscivo a metabolizzare quell’incalzante overdose di stress che m’accompagnava costantemente. Per di più faticavo a mescolarmi con quella gente dai modi di vita diversi, dal momento che ero avvezza al mio mondo provinciale dove ci si conosceva tutti. Vagheggiavo di allontanarmi da quel posto ed in primavera si presentò l’occasione tanto desiderata. In Italia ci sarebbe stata la prima mostra-mercato della nostra ditta tra quelle internazionali .Colsi la palla al balzo ed approfittando della conoscenza perfetta dei luoghi e della lingua mi feci avanti per andare in Italia come promoter nelle terre del parmense. Ebbi con facilità l’incarico e coincidenze mi spettò d’andare a Parma ..Avevo quindici giorni a disposizione per per vendere i prodotti e prendere le prenotazioni. Lungo il viaggio almanaccai che avrei alloggiato a Berceto e avrei fatto la spola tra le zone limitrofe e Parma. Non mi pareva vero di lasciarmi alle spalle il modesto attico dove dimoravo da eremita tra persone che mi passavano accanto senza scorgermi. Nel giro di poche ore l’aereo mi portò a Parma. Ansiosa di recarmi a Berceto, cercai il primo taxi libero e mi diressi verso l’hotel prenotato. Approdata nella stanza che mi era stata destinata,mi affacciai un attimo alla finestra per respirare una boccata d’aria pura e poi,sistemate le mie cose, mi abbandonai ad un sonno ristoratore. Il mattino seguente decisi di fare un giro turistico lungo un tratto del Po e poi al centro di Berceto. Rividi le ampie vallate,le rocche gli antichi borghi medioevali, i castelli sontuosi, i chiostri silenti, i magnifici parchi, le sfarzose dimore signorili e tutto quanto rende fascinosa e senza pari la bellezza incontaminata delle nostre zone..Non paga di questo, nel pomeriggio mi venne in mente di dirigermi fuori dall’abitato per rivedere quella che un tempo era stata la mia dimora. Diedi l’indirizzo al taxista e m’accordai che venisse a riprendermi dopo due ore. Volevo avere il tempo di esplorare i dintorni .La casa, circondata dal podere ben tenuto, non aveva subito alcuna modifica. Il che mi diede un brivido di compiacimento. Seguii l’istinto e, dal momento che avevo buone disponibilità finanziarie, elucubrai di presentarmi e fingere d’essere interessata all’acquisto di quella casa, anche se poteva sembrare una follia in quanto non c’era nessun cartello di vendita. Suonai al campanello. Venne ad aprire un signore sui settant’anni molto ossuto col volto incartapecorito che mi guardò in modo interrogativo “Buon giorno - mi chiese cortese - desidera qualcosa?”Ebbi un po’ d’imbarazzo nel mentire “Buon giorno, mi scusi, è questa la casa in vendita? … non vorrei essermi sbagliata…”E lui col capo basso di rimando sbottò:“La manda Ines? Prego, favorisca”Non avevo la più pallida idea di chi fosse costei, ma stetti al gioco e lo seguii. Sull’uscio si affacciò una donna col faccione rubicondo e occhi neri di lince che mi squadravano nel domandare: “Signorina, è dei servizi sociali? Le ha parlato Ines?” M’affrettai a precisare “Scusate, ci dev’essere un equivoco non conosco Ines. Sono alla ricerca d’una casa da acquistare e pensavo…”“Ah,bene - aggiunse sollevata - noi siamo Mara e Giuseppe Benzi e per mantenere nostro figlio ci siamo rivolti ai servizi sociali prospettando l’idea di vender tutto perché non riusciamo ad andare avanti con le spese...Lei è?” “Isabel D’Urso. Da ragazza abitavo qui.”La signora, aggiunse: “Signorina per la mia lei è la figlia di Gino e Maria..gli orafi?” “Esatto sono persuasa che ci accorderemo. Rompiamo gli indugi … Ditemi … la cifra”Giuseppe aggrottando le ciglia: “A noi, ad esser franchi occorrono oltre duecentomila euro per il viaggio in Svizzera, l’intervento e la degenza di nostro figlio…” “Ne convengo. Mi dispiace che vi troviate in simili circostanze. Non temete, vi darò quanto volete!”Il Signor Giuseppe restò un attimo a pensare, poi si riscosse e disse: “Restiamo intesi così: Preparerò gli incartamenti. Mi lasci il numero di telefono.”“ Bene. Eccole il mio recapito ..a risentirci” Ci congedammo con una stretta di mano ed ebbi giusto il tempo di rimontare sul taxi che m’attendeva,.Per tutta la sera nella mente girava come ruota di mulino l’idea che forse avevo fatto una scelta avventata :Uscii per impedirmi di rimuginare e gironzolai per la città ronzante e fervida come un alveare con i passanti che sciamavano allegramente. Assaporavo il respiro del tempo tra quei vicoli, quelle case e quelle torri. “Non so quanti mondi possono esservi nell’universo - meditai assorta - a me basta riappropriarmi delle mie cose in questo piccolo angolo di terra per ritrovare la quintessenza della felicità”Del resto i soldi me li ero guadagnati a fatica e non dovevo render conto a nessuno per cui era inutile, pensai a conclusione delle mie riflessioni, badare a spese. Rasserenata, rientrai nella mia stanza e m’addormentai profondamente con tutto il brusio chiassoso degli avventori che ciarlavano senza sosta - si sa noi emiliani siamo festosi e buongustai!A questo punto della narrazione devo giungere al gran finale ….Trascorsero trenta giorni - tempo necessario per mettere in atto l’acquisto e per smaltire le vendite della ditta - e poi, come previsto, avevo centrato gli obiettivi .Tutto si era svolto nel migliore dei modi. Avevo realizzato i miei sogni. Per festeggiare il buon esito raggiunto mi concessi una grande abbuffata di tortèj dòls conditi con burro fuso e doppia razione di parmigiano reggiano - in barba ai dietologi .Paga e satolla imboccai la via per Parma e ripresi l’aereo per varcare di nuovo l’oceano. Prima del decollo gettai uno sguardo malinconico alla dolce pianura verdeggiante, agitata da una leggera arietta, segno del primo alito struggente della primavera annunciata dal volo rapido di uno stormo di uccelli migratori e mormorai estasiata: “A PRESTO ! BERCETO …. MY LOVE!”
Adele Turco
La Certosa dei Segreti
Le verdi colline del Chianti sonnecchiano aldilà della finestra socchiusa della mia cucina, baciate dal sole, mentre impera la quiete di un fresco mattino d’estate. D’improvviso il silenzio sbadiglia, con sbuffi di vento che il mondo risveglia.
Cielo azzurro e bianche nuvole d’ovatta a completare il quadro.
Rallentano i miei pensieri, mentre seduta con una tazzina di caffè fumante, raccolgo le prime luci del mattino, i primi suoni e profumi.
Una gran voglia di partire, per esplorare ogni piccolo angolo di questo mondo a molti sconosciuto. Potrei farlo con la macchina, il treno, la moto, la mountain bike, a piedi… ma il viaggio è soprattutto nella testa. Ed è da qui che voglio partire, accarezzando con i pensieri la geometria delle pallide e verdeggianti distese oltre i gerani della mia finestra, i muri sbrecciati e i tetti scompigliati delle case vicine.
L'argento delle viti, la candida punta dei cipressi secolari a sfiorare il cielo, il bianco delle strade sterrate e polverose, il dorato del grano e il giallo dei girasoli danzanti nei campi danno vita a quadri suggestivi e armonici, degni delle pennellate di grandi pittori.
Comincia qui il mio percorso alla scoperta della terra di Siena, che non mi ha messo al mondo, ma mi ha adottato in età adulta, divenendo Terra Madre per me e Terra Nonna per la mia bambina. Un intreccio di vite, ma anche odori, sapori, colori e meraviglie, che non basterebbe un libro a raccontare.
Siena è un piccolo grande mondo incantato. La bruma mattutina è una sua costante, insieme agli alberi che si acconciano a fedeli guardiani di questa città piccola, ma in grado di contenere l’immenso.
E’ un cuore medievale che pulsa nel corpo soffice e sinuoso delle colline toscane.
E’ una storia fatta di mille altre storie, che si uniscono, si intrecciano, si incastrano, come quelle di tutti i luoghi, le città, i paesi, i borghi, i piccoli grandi mondi che fanno la nostra Terra. Un giorno qualcuno mi ha sussurrato che la terra di Siena contiene un segreto e da allora non smetto di pensarci. E’ stata una signora anziana che ho conosciuto per caso, durante una passeggiata nei boschi. Ho cominciato così a prestare attenzione, ad ascoltare la voce delle colline nel silenzio, il mormorio del vento tra i cipressi, il canto degli uccelli, il suono delle campane, il frastuono delle strade, le voci degli uomini e delle donne che in questo posto sono nati e cresciuti. Chissà quale sarà questo segreto, se è vero che c’è. Mi piace anche credere che esso sia semplicemente racchiuso nella bellezza di ciò che possiamo scoprire vivendo a Siena per un giorno, due o magari per tutta la vita.
La magia del viaggiare si sposa con il piacere di ospitare, di mostrare i gioielli della propria terra, di offrire ciò che di buono si possiede per natura a chi lo sa apprezzare. E Siena, coi suoi abitanti, in questo è brava. Ha il gusto e la voglia di farsi scoprire, di svelare il bello racchiuso tra le sue mura e aldilà di esse.
Sono ancora seduta a sorseggiare il caffè, di cui ormai è rimasto il fondo nella tazzina, e a rimirare l’incanto delle colline oltre il mio naso, quando con i pensieri mi sposto un po’ più in là, dove c’è una grande porta che si spalanca alla città vecchia. Si chiama “Porta Camollia”. Da qui si accede al cuore medievale che pulsa veloce e fa più rumore, specialmente quando c’è aria di festa, per via del Palio, che si conserva e si rinnova da secoli, il 2 luglio e il 16 agosto di ogni anno. Siena è il Palio. Il Palio è Siena. Impossibile scindere le due realtà, straordinariamente intrecciate fra loro come cielo e terra. I riflessi rosati dei palazzi di piazza del Campo e il sole che gioca a nascondino con la Torre del Mangia sarebbero la mia icona preferita se dovessi inventarmi un francobollo di Siena, di quelli che guardi una volta e ti rimangono impressi per sempre. Anche chi non è mai stato da queste parti sa che per il Palio la piazza si veste di colori, drappelli e magia, che per il palio si ride e si piange, si ama e si odia, si vive e si muore. Questa è storia. E’ la storia di Siena. Ho abbandonato la tazzina di caffè sul tavolo della mia cucina, rapita da una spasmodica voglia di percorrere a piedi la strada che dalla collina di fronte a casa conduce, come un’arteria verdeggiante, al nucleo di mattoni che risplende tra le mura medievali. Adesso cammino lentamente per le strade della mia città: già, la mia. Non quella dove sono nata e cresciuta, dove mi sono innamorata per la prima volta, dove il destino mi ha annidata, ma la mia città, quella che ho scelto con il cuore per una sensazione astratta ed irrazionale, per un amore a prima vista e a fior di pelle, che aldilà di ogni immaginabile previsione mi ha fatto sentire al posto giusto, nel tempo giusto. La città che mi ha mostrato chi sono davvero, cosa voglio e dove voglio arrivare, che mi ha accolta tra le sue braccia e mi ha dato fiducia, senza chiedere nulla in cambio. Discreta e riservata, mi ha lasciato esplorarla, qualche volta giudicarla e criticarla per le sue stranezze, per il modo di pensare e di agire della sua gente, diverso dal mio. Chi non è nato a Siena non può capire certe cose. Le bellezze artistiche e naturali di questo luogo sono indiscutibili. I castelli, le pievi, i borghi antichi limitrofi sono una goduria per gli occhi e per il cuore. Percorro le viuzze della città che pullulano di negozietti dell’artigianato locale e che non stancano neppure chi in questo posto ci vive da sempre (il senese può sentirsi turista a vita e non annoiarsi mai), quando d’improvviso mi viene in mente di raggiungere un angolo del mio paradiso dalla bellezza indescrivibile ed impareggiabile.
Si tratta della Certosa di Pontignano, un ex convento certosino del Trecento, che conserva il suo aspetto originario di luogo adibito alla preghiera, alla meditazione e alla pace. Oggi non è più un convento, ma un Centro Congressi dell’università.
Non posso arrivarci a piedi, devo seguire una strada di quelle che si perdono in collina, fatta di curve, salite e discese, vigne ed oliveti, dove ci si fermerebbe ad ogni giro di gomma per respirare a pieni polmoni l’aria densa di verde e meraviglie.
Mi incuriosisce il fatto che lì vivessero i frati certosini. Sarà che ho sempre avuto interesse per questo tipo di vita di reclusione e preghiera.
Quando per la prima volta ho varcato l’ingresso della Certosa di Pontignano, ho avvertito una forte scossa emotiva ed ho dovuto strizzare gli occhi più volte, per avere la certezza che non fosse tutto un sogno. La magia e l’incanto appaiono immutati, perpetui. E’ stato amore a prima vista, è diventato il mio rifugio, quello dove mi rintano lasciando fuori tutto il resto del mondo. E’ quell’”altrove” dove spesso ci si vorrebbe materializzare, quando il brusio della vita attorno è troppo forte.
Il cielo dalle tinte pastello si confonde con la terra. Il sole interviene a dare pennellate di giallo sfavillante, in un balletto di continui scintillii luminosi, così che i chiostri, gli alberi e le colline sembrano incastonati a filo come grani di luce, in una cornice di cui divento protagonista.
Aleggia un’aura di mistero che rapisce.
C’è un segreto celato fra i loggiati, le pareti monumentali, i giardini, persino le pieghe dell’alba che quell’oasi ristora.
Torno a casa e dalla finestra della mia cucina rimiro in lontananza la collina su cui si erge la Certosa splendente. Sorrido guardando la posa del caffè sul fondo della tazzina abbandonata al mattino.
E’ una lettera: “C”. Di Certosa, ma non solo.
Io le ho affidato un segreto. L’ho fatta scrigno di un tesoro, che non è quello della Terra di Siena, ma il mio. E mi piace pensare che chiunque passi da lì, abbia voglia di lasciare il proprio, indicibile e imperscrutabile. La Certosa dei Segreti: la guardo, aldilà dei gerani, dove tutto comincia e tutto finisce, congiungendosi in un punto che chiude il cerchio perfetto. Quello della mia vita e di chiunque la farà scrigno dei propri inconfessabili e favolosi segreti.
Daniela Cavone
Recco ha i miei piedi
Camminare e lasciarmi sorprendere di tutto ciò che incontro…..
Camminare per misurare lo spazio usando i miei passi, la mia velocità e il mio ritmo….
Camminare partendo da casa e tornando a casa , in viaggio nella mia città!
Oggi ho deciso di percorrere uno dei tanti sentieri che circondano l’area cittadina; ne ho scoperti almeno dodici, e mi diverto a pensare che possano essere collegati ai mesi dell’anno e al susseguirsi delle stagioni.
Un po’ come lo scorrere della vita, quando siamo nella nostra primavera e in estate affrontiamo itinerari più faticosi, ma per l’autunno e l’inverno passeggiamo in relax , più lentamente e con tratti meno impegnativi. Per questo percorso è meglio scegliere una giornata di maggio, nel tepore primaverile, anche nel tardo pomeriggio.
Le caratteristiche creuze mi portano subito fuori dal tempo e lascio alle spalle stress e fatiche quotidiane: salgo costeggiando case contadine e, attraverso un sentiero sterrato, pianeggiante e panoramico arrivo a ripide scalette un po’ sconnesse……qui tutto profuma di storia e ogni pietra conserva il fascino del passato.
Mi racconta il signor Vincenzo, impegnato a sistemare il suo prezioso uliveto, che siamo nel cuore di Liceto , uno dei quartieri recchesi più antichi, nella zona delle Aggie , dove ancora si possono scorgere le tracce dei portali che davano accesso alle ville.
I contadini da qui scendevano a vendere le loro merci: frutta, verdure, olio, latte, uova, un’economia rurale , semplice, un commercio povero, ma basilare. Era la fine del 1700 quando la frutta partiva con i treni merci verso l’alta Italia e la Svizzera , spesso accompagnata da cassette colme di fascetti di rosmarino.
Annuso l’aria pulita , chiudo gli occhi e mi tuffo in questa immagine suggestiva , bucolica….donne e uomini tra gli alberi o chini nell’orto, intenti al lavoro, voci lontane , risate ….tempi scanditi dalla natura, riuscendo a creare un equilibrio alimentare rispettoso dei prodotti della terra.
Attraverso gli occhi esperti del mio cicerone posso individuare anche le mitiche erbette per uno squisito preboggion, una miscela di erbe spontanee e succulenti che potrò usare in cucina nel ripieno dei pansoti , la pasta ripiena da condire con salsa di noci .
La signora Giuseppina mi svela qualche trucco per rendere il piatto eccezionale: unire gradualmente la prescinseua e solo un uovo alle verdure lessate e tagliuzzate. Certo il vero segreto è nella forma da dare al triangolo di pasta, che solo mani esperte sanno rendere unico, una vera leccornia per tutti i palati.
Dopo un paio d’ore concludo il mio percorso, che diventa ad anello perché decido di scendere dal versante opposto a quello di partenza, ma ho con me il prezioso raccolto delle colline , fatto anche di un delizioso bouchet di erbe aromatiche, salvia, rosmarino, alloro, che trasformeranno una ricetta semplice in un piatto originale .
Mi basta sfiorarlo per rivivere l’emozione di questo percorso, nei profumi e nei ricordi di una Liguria antica, per un volto diverso di una città ligure della riviera di levante.
La mia Recco mi offre quadri davvero incantevoli, accuratamente celati, ma pronti a mostrarsi ai visitatori più temerari , che osano lasciare per qualche ora la spiaggia e la focaccia col formaggio . Non c’è bisogno di altro , se non dei miei piedi ……magari calzati in scarpe comode!
Patrizia Balletto
Azzurro e… azzurro
Affannoso il vecchio ascensore si erge temerario verso il passato. Come una macchina del tempo. Da oggi a ieri. Perché, a dire la verità, la sezione “Lucchesi Palli” della Biblioteca Nazionale di Napoli sembra davvero un angolo del passato. Uno di quei posti angusti e senza tempo. Dalle innovazioni pressoché minime: un campanello, una luce piuttosto che una ringhiera. Ma niente di nuovo, scientifico, tecnologico. Niente di niente. Neppure il clima. Che, nonostante Novembre, appare coraggiosamente mite e sereno. Il sole, adagiato sui tetti dei palazzi circostanti, sembra non volersi arrendere alle nuvole. Mica come me! Che dalle nove di mattina sono oscurato da cataloghi e moduli di “richiesta testi”. Cerco un libro di un certo Émile Ajar. Uno scrittore francese che, dopo la morte, si scoprì pseudonimo di Romain Gary. Ovviamente io cercavo un autore e i cataloghi ne indicavano un altro. ..“E allora due sono le cose giovanotto: o site sceme vuje, o songe scemo io..!!”… “E siccome io qui ci lavoro da trent’anni non mi pare proprio il caso” … “Ok ok ho capito! Scendo un attimo..e ricontrollo meglio!!”Cosi un quarto d’ora dopo, mentre cerco di rimpastare la mia mimica facciale per mostrarmi il più desolato possibile, sono di nuovo di fronte all’uomo dalla trentennale esperienza: “L’autore è Émile Ajar e nessun altro. Non c’è nessun errore da parta sua !!”(penso e dico, perché sono obiettivo). Mi siedo. Sono le due del pomeriggio e le sale quasi completamente vuote. Di fronte a me, quell’inaccessibile espressione letteraria. “Finalmente!”, penso. Un romanzo del 1975, di 200 pagine. Inizio a sfogliarlo. Mi piacerebbe prenderlo in prestito. Sembra un libro interessante. Il titolo l’ho sentito per radio. Pare che abbia venduto milioni di copie. Mi precipito a leggere qualche pagina. “Una vita davanti a sé”…“Guarda un po’ che strano titolo! Un terribile scherzo del destino??” mi viene il dubbio che veramente dentro quel libro ci sia la mia vita! La vita che sarà; (o quella che vorrei?) quella che un giorno verrà a trovarmi e s’impadronirà di me, impedendo finalmente agli eventi di decidere al posto mio.. che mi prenderà per mano e comincerà mostrarmi le cose più belle. Come questo posto. Dove, insieme al silenzio degli occhi, si può osservare il mare. Attraverso una porta aperta, con delizia, sul golfo. Mergellina e orizzonte. Vele e crociere. Azzurro e… azzurro. Già, azzurro e… azzurro. Come diceva lei… Su questo tavolo, esattamente in questo angolo del mondo, leggevamo incuriositi le pagine de La Dolce Vita. Quel testo che narrava di tutti i retroscena del film che segnò un’epoca. Piaceva ad entrambi Fellini. Ci piaceva perché era arguto, magico e i suoi film spesso surreali. Eravamo stregati dagli anni delle irripetibili notti romane. Fantasticavamo divertiti a un tavolo di Via Veneto. Seduti come prede quotidiane della cronaca. Immaginandoci divi del passato, pronti a vivere la nostra grande avventura. Degli anni più belli: quelli delle nostra giovinezza, del nostro amore. Da allora sono passati due anni. Alessia ha deciso di lavorare in America accettando, inspiegabilmente presto, una proposta giunta per raccomandata. Dimenticandosi delle sua vita passata.. dimenticandosi soprattutto di me. Ora qui, ci sono io, il mio libro e le sue invitanti pagine iniziali. C’è la vera identità del protagonista Momò, la visione diretta e crudele del quartiere parigino di Belleville, c’è perfino chi si è permesso di scrivere nell’introduzione: “Sei diventato pazzo per Colei che ami”. E chi ha risposto: “La vita ha sapore solo per i pazzi”. Chiudo gli occhi e ritorno ad ascoltare lei. Ascolto il suo profumo alla vaniglia. Le canzoncine in inglese fastidiosamente sussurrate nel mio orecchio. Il gusto caramelloso dei suoi baci. Il colore tenero dei suoi occhi. Ascolto il sapore di caffè appena pronto, il colore terribilmente azzurro del mare, l’odore antico dei libri di arte drammatica. Ritorno agli anni universitari. Quando era così raro concedersi una pausa. Una finestra discreta sul mondo. Un giorno di vita felice. Spensierati come solo due giovani possono esserlo. Ritorno ai momenti magici dopo gli esame. Dopo uno di quelli duri e faticosi. Rivivo le passeggiate a Via Chiaia. I nostri baci dolcissimi allo zucchero a velo delle sfogliatelle ancora calde. Il caffè dalle tazze bollenti del Bar Gambrinus. Ora che lei non c’è più .. la quiete di questo posto rasserena, senza chiedere nulla in cambio, le mie inquietudini. Ora che sono solo, con il mio libro. Ancora più solo. Accanto alle mie avversità. Agli avvisi pubblici. Ai traslochi coordinati e continuativi. Ora che sono (da solo) in cerca di una nuova occupazione. Probabilmente al nord. In qualche luogo freddo e senza sole, dove lo sera ascolti presto il profumo del camino. Per un anno, due…o forse per sempre! Vorrei non lasciare mai questo posto, questa pagina ancora viva di noi. Qui dove, anche i vecchi libri decidono di restarci a vita e i gerani si nutrono esclusivamente di mare e di sole. In questi luoghi felici. Dove ancora le giornate profumano di primavera. Ed il sole sembra non tramontare mai.
Clemente Cipresso
Camogli
Il colonnello Cassia guardava il mare, seduto su una panchina all’ombra di un pino marittimo. Il luccichio delle onde squarciava il buio dei suoi pensieri e l’odore di salsedine lottava con l’amaro che lui aveva in bocca.
La costa, alta e rocciosa, gli parlava di lunghe passeggiate, ai tempi in cui l’amore pervadeva ogni attimo dei suoi giorni, quelli in cui la sua mano stringeva quella di Lucia e i suoi occhi erano costantemente incorniciati dall’espressione del sorriso.
Il sole, stranamente tiepido quel giorno di Luglio, regalava alle ombre forme tradizionali. Un tempo invece aveva dipinto animali e creature mitologiche, da guardare e commentare, fra un bacio e un altro. Quel sole non scaldava più. Era solo un arredo di quella vista, alla quale il colonnello dedicava ogni giorno mezz’ora della sua passeggiata.
Non lavorava più da molti anni e il suo passo, senza che lui se ne accorgesse, era diventato sempre più lento. Così, al passare dei giorni, in quell’ora di passeggiata, il percorso era diventato sempre più breve. Una volta arrivava almeno fino alla villa dei Farisella. Adesso si accontentava di ammirarne i balconi pieni di gerani, da quella panchina, a trecento metri, che i ragazzini del quartiere lasciavano libera quando arrivava l’ora in cui lui sarebbe apparso dal sentiero.
C’era odore di gelsomino quel giorno e niente sembrava presagire cosa sarebbe successo.
Mattia, uno dei ragazzini, aveva visto Cassia arrivare zoppicando e si era voltato verso i compagni di giochi, come a chiedere loro se ne sapessero il motivo. Uno di essi, Luca, che abitava nella casa di fronte a quella dell’anziano, quella mattina non l’aveva visto uscire, come di solito accadeva alle nove e, quando Mattia gli aveva citofonato per andare al lungomare, era sceso in strada e aveva visto la serranda della finestra del colonnello ancora abbassata.
Quel giorno Cassia era andato a sedersi su quella panchina senza il giornale in mano, come invece accadeva di solito. Era affaticato e turbato. I suoi occhi non avevano dispensato a quei ragazzini nemmeno un sorriso al suo passaggio, né un cenno di saluto. Si massaggiava continuamente il ginocchio sinistro.
L’altra mano invece, come tutti i giorni, non smetteva di torturare il piccolo bottone di feltro nero che il colonnello teneva appuntato al bavero della giacca sin da quando era diventato vedovo.
Mattia gli si avvicinò.
“Buongiorno, colonnello. Tutto bene?”
“Buongiorno, Mattia, tutto bene; e tu come stai?”
La mano che massaggiava si fermò per un attimo, il tempo di pronunciare quella frase. Poi ricominciò.
“Cosa si è fatto al ginocchio?”
“Nulla, ho solo urtato un mobile mentre uscivo; oggi il sole non scalda.”
“Già.”
Mattia vide una nuvola che si apprestava a coprire il sole.
“Colonello, dice che pioverà?”
“No, non pioverà.”
Il colonnello ci azzeccava sempre: decenni al servizio meteorologico dell’Aeronautica gli avevano insegnato a prevedere quando una nuvola portava pioggia e quando invece tristezza, come quel giorno.
Mattia tornò dai suoi amici, a parlare di calcio.
Una barca a vela passò poco dopo davanti al belvedere e attraccò pochi metri più in là, scomparendo alla vista. Il colonnello riconobbe chi c’era a bordo e si affrettò ad alzarsi e ad avvicinarsi zoppicando al parapetto per guardare giù, vicino al molo. Un uomo anziano scese dalla barca, con un cappello da marinaio e pantaloncini corti bianchi.
“Eugenio!”, chiamò il colonnello.
L’uomo sollevò lo sguardo.
“Eugenio!”, ripeté Cassia.
L’uomo sorrise e aprì le braccia. Il colonnello si voltò verso la scala che portava giù e vi si diresse sorridendo. Avrebbe voluto correre verso il molo. L’uomo intanto, finito di legare la barca, si avviò su per la scala. S’incontrarono a metà altezza e si abbracciarono.
“Romeo! Come stai? Quanto tempo.”
“Eugenio, fratello mio, io sto bene, un po’ acciaccato ma vivo; e tu?”
“Io non riesco a stare sulla terra ferma per più di un giorno, lo sai, così oggi ho fatto un giro verso Portofino e per la prima volta non volevo più tornare a casa; allora ho deciso di passare da qui, la cara vecchia Camogli.”
“E come mai?”
“Non so, questi anni in Liguria stanno cominciando a diventare troppi: mi manca la mia Puglia, la roccia calcarea, l’odore delle pizze fritte.”
“Le pizze fritte, quel profumo, che meraviglia, quando sono venuto a trovarti; i Liguri fanno solo focacce.”
“Già.”
Risero.
“Non dirmi che vuoi tornare.”
“Magari, ma ormai non c’è più nessuno ad aspettarmi, sono morti tutti, parenti, amici e nemici; e tu nessuna nostalgia di Gaeta?”
“Certo, ma anche i miei nemici sono morti quasi tutti; resti solo tu.”
Risero di nuovo.
“Mi aspetti cinque minuti che sistemo due cose nella barca e ci andiamo a fare un caffè?”
“Va bene, nel frattempo risalgo, perché ci metto un po’ ad arrivare su.”
Il colonnello affrontò il primo gradino e nel momento esatto in cui sollevò la gamba per salire sentì un “crack”. Il ginocchio cedette e lui cadde in avanti, urtando col viso su uno spigolo. Rimase lì, da solo, nascosto alla vista sia del suo amico, che intanto era arrivato giù al molo, sia dei ragazzini sul belvedere. Dalla ferita sulla fronte il sangue si avventurò lungo il profilo dello scalino, giù verso la ringhiera. Passarono dieci minuti prima che l’amico, risalendo, lo trovasse, disteso e pallido. Urlò e i ragazzini si affacciarono dal belvedere. Mattia corse giù. Il marinaio chiamò un’ambulanza. Quando questa arrivò, i ragazzini rimasero immobili mentre la barella era portata su per le scale.
Lucrezia Cassia aveva quarantatré anni quando mi ha raccontato della fatale caduta di suo padre, e consumò l’intero pacchetto di fazzoletti di carta che le avevo offerto. Ho immaginato quella scena dieci, cento, mille volte, e c’è sempre stato un particolare che non torna. Una volta ho creduto fosse l’odore di gelsomini, un’altra il cappello del marinaio, un’altra ancora lo sguardo impietrito dei ragazzini. Poi ho pensato che forse è proprio quella caduta che non quadra. Non quadra con il ritratto eroico che Lucrezia mi ha sempre tracciato di suo padre, quando ancora ci abbracciavamo all’ombra di quegli stessi pini marittimi. Non quadra come lo stare lontani, come l’essersi lasciati per colpa di una situazione che lei diceva insostenibile. Non quadra perché dei nostri abbracci il mare mi porta, ogni giorno, l’eco e la luna mi racconta, come fa una nonna con uno dei suoi nipoti.
Quando incontro Mattia, che ora ha vent’anni, vedo nei suoi occhi l’immagine di quel vecchio e mi appare più nitida che nei racconti della mia ex-amante. Credo che un giorno lui sarà molto più simile al colonnello di come l’ho immaginato prelevando le parole dalle dolci labbra di Lucrezia e saprà prevedere quando una nuvola porterà pioggia o tristezza.
Lei mi ha detto poco di quella Lucia. Mi ha raccontato di più del sorriso con cui suo padre gliene parlava. E allora, senza vederne una foto, ho creduto di immaginarla perfettamente, con i capelli raccolti e una spilla sul vestito, di quelle dorate con i brillantini dentro, magari a forma di nota musicale o di gabbiano. L’ho immaginata passeggiare con quell’uomo e chiedergli cosa avrebbero portato le nuvole. L’ho immaginata anche in quel giorno in cui gli ha comunicato la sua decisione di lasciarlo, perché l’amore era andato in ferie o perché magari la loro situazione era ancora più complicata di quella mia con Lucrezia. Chissà se anche Lucia aveva un figlio in nome del quale aveva consumato quella rottura e aveva preferito rimanere con un marito che non amava più, per quieto vivere o per paura di far morire il sorriso negli occhi della sua creatura.
L’amaro in bocca di lui. Quello invece non ho bisogno di immaginarlo, perché è vivo in me, come il riflesso del sole in queste onde, che osservo da questa panchina. Laggiù la villa dei Farisella non ha più gerani, ma solo i segni dell’abbandono. Già, l’abbandono.
Gianni Contarino
Una porta in paradiso
Benvenuti sulla costiera Amalfitana. Il cartello che si legge è lì lungo la Statale, appena dopo lo scivolo, il grande ponte che conduce a Salerno. La porta d’accesso al Paradiso si staglia proprio dinnanzi: Vietri sul mare, il luogo dove sono cresciuta.
Subito l’impatto è spettacolare. Aggrappato alla roccia, come una sporgenza naturale e maestosa, si erge il Palazzo della Ceramica Solimene, realizzato dall’architetto Paolo Soleri, sullo stesso modello del Guggenheim Museum di New York. L’aria campana che sa di buono, che ha il duplice sapore di dolce e aspro come i limoni che la fanno da padrona, si sposa con quell’atmosfera internazionale che la caratterizza da sempre, perché la bellezza di quella terra appartiene al mondo intero. Alla fine del corso Umberto I, domina la vista, la cupola cinquecentesca della Chiesa di San Giovanni Battista con le sue scandole, le maioliche a forma di pesce di tre colori differenti: azzurro, verde e giallo.
Il biglietto da visita è tuttavia un altro. Immenso, la circonda, la penetra e la innalza. Il mare, con i suoi riverberi e le sue luci, è un complice fedele di umili artigiani che con alacre fervore modellano piccoli gioielli di terracotta. Vietri: la città della ceramica.
La vita quotidiana di questa splendida cittadina, vicino Amalfi, è dipinta su tazzine, “sulle riggiole”, su vasi e bocchette profumate. E’ un’apoteosi di colori. Le decine e decine di botteghe sono una diversa dalle altre, ognuno ha il suo laboratorio, ognuno le sue sfumature, ognuno la sua tradizione.
Si, perché Vietri, è piena di tradizioni. Il suo nome, dal latino Vetus vuol dire antica; fin dal tempo dell’originaria Marcina, era un piccolo borgo marinaro. Dalle carte nautiche era considerata come il punto di riparo dal vento di libeccio. Ricordo mio nonno, conservava ancora un piccolo vascello di argilla, ex voto per gli scampati naufragi.
Rientro, dopo tre mesi nella mia città. Il lavoro mi ha portata lontano.
E’ intatta, identica a come l’avevo lasciata, anzi ancora più bella.
E’ un grappolo di case bianche, dalla tipica struttura cubica, tra cui svettano di tanto in tanto cupolette colorate. Sento le prime voci, ne riconosco il mio stesso accento.
Mi penetra perfino nella carne quella brezza sana dell’acqua di mare.
La strada, stretta fatta di sanpietrini, quei fastidiosi sanpietrini, in cui i sandali alti spesso si incastravano, conduce a Marina, il luogo più amato dai noi ragazzi. Era lì, nella piazzetta, di fronte al bar “che faceva i gelati migliori” che nacquero i primi amori, fatti di ingenui baci e conchiglie colorate.
Ci si incammina, lungo quello che può rappresentare il lungomare, fatto di spiaggia, ombrelloni, e piccoli spazi di ristoro.
C’è la spiaggetta della Crestarella con la torre del Cinquecento, poi Bagnara, Marina D’albori, L’Acqua del Fico, chiamato così per via di un maestoso albero da frutto tra le rocce aspre e dure della costiera, fino ad arrivare ai “Due frati”, i due fratelli, i due scogli simboli di Vietri, i cugini non lontani dei Faraglioni di Capri.
La scia bianca delle navi, le luci abbaglianti dell’estate, la maestosità di Villa Guariglia, gli spaghetti alle vongole, la delizia a limone. Questa è Vietri, per chi è forestiero.
La signora Giuseppina, che pulisce su uno sgabbellino di paglia fuori dal portone dal grigio intonaco i baccelli dei piselli. Il signor Enzo che intreccia un cestino di vimini, “spuzziulando” un tozzo di pane bagnato coll’acqua di mare. Ugo e “Tatone” che raccolgono i profumati limoni in grosse ceste nere; e ancora Marilena che innaffia le rose nei vasi in piazza Matteotti, o Gina che dà da mangiare ai gatti randagi di Dragonea, e poi la signorina Stella, Gennaro il salumiere e tanti altri….
Vietri è questa, per chi come me, vi è nata. Per tutti coloro che, sono cresciuti, e pur a malincuore si sono allontanati. Noi abbiamo un segreto, il nostro segreto per non dimenticare il paradiso che ci ha generato. E, per noi vietresi, in quanto segreto, così deve restare.
Rosaria de Rosa
La “scerra” su una Lekane
Breve storia su una decisione grottesca
Non ebbe tempo neanche di finire la frase, “…così è deciso”, che il silenzio dell’aula venne squarciato dal grido di don Alfio: “ma che diamine sta dicendo, Lei!”.
Sembrava che l’avesse trattenuto per tutto il tempo della lettura, lo sfogo di gridarglielo.
E neanche la reazione dei carabinieri pote' calmierare le urla, il vocìo e gli schiamazzi che subito seguirono. Chi da una parte bisbigliava all’orecchio del vicino le proprie considerazioni, chi più in là si spellicava dalle risate, chi ancora chiedeva al vicino cosa in sostanza fosse accaduto. Ed invero, per mesi, in paese non si parlò d’altro. I pranzi delle domeniche non sfuggivano all’esame della questione. E per quanto magari l’argomento volesse essere evitato, bastava che qualcuno dicesse “passami quel piatto”, che subito la sorte della conversazione imboccasse una sola direzione.
Bastava fare una passeggiata in centro per capire dai semplici gesti che accompagnavano le conversazioni che il tema dibattuto fosse sempre quello. Ovunque si volgesse lo sguardo, sembrava di vederlo realizzarsi di continuo quello scambio,
Scambio? Chi saprebbe dirlo, in verità, come nominare ciò che era successo?
Ed in effetti la vicenda era alquanto ingarbugliata. E non contribuì certo la decisione del giudice, del dottore Impallomeni, così come veniva chiamato in paese, a chiarirla.
Ma come gli era venuto in mente?
Non di rado capitava che in paese si organizzassero manifestazioni, conferenze tutte volte a promuoverne la storia e a rievocarne i fasti trascorsi. Quelli soprattutto dell’età romana imperiale. Atmosfere che si respirano per la verità ancora oggi, se solo si entra in un negozio, o si fa visita ad un artigiano, o pur anche entrando nell’abitazione di un residente: statue, vasetti e anfore, fanno bella mostra di sé, e pur replicate, quando sono replicate, quei vasetti quelle statue, quelle teste, son sempre capaci di fare rivivere le sue antichissime origini, echeggiare il rumori delle bighe romane, il cigolio dei movimenti ondulanti delle ruote dei carri, il baccano dei cives che passeggiano per il foro.
E sarà stata forse questa atmosfera, vissuta fin da bambino, che avrà indotto il dottore Impallomeni, apprezzato giudice e riconosciuto appassionato di storia romana, ad indurlo – sconsideratamente – ad emettere quella decisione.
Don Alfio se lo ripete ancora, senza che gli venga chiesto da alcuno, quando passeggia per il centro del paese: “ma che minghia c'entra questo Cersio” – spesso ad alta voce, tra sé e sé - “io l’ho pagato, gli ho dato i soldi, l’ho pagato, la lekane me la doveva far dare, questo cornuto!” – e sforzandosi di ripetere - “…didi ti pacunia, anzi no, dedi a mi pecunia” – per poi arrendersi – “…che avrà voluto dire, lo sa solo lui!”.
Ed in effetti a qualcuno sembrava che tutti i torti don Alfio non li avesse. Ma come gli era venuto in mente però di pagare in lire, per giunta cinquecentomilalire, lo sa solo lui. E a tanti altri però, la decisione del dottore Impallomeni, sembrava una aggiornata e riveduta forma di contrappasso dantesco: con il vecchio hai pagato, con il vecchio vieni giudicato. E poi quella citazione. E’ quella citazione che non fa dormire molti la notte in paese, specie don Alfio: dedi tibi pecuniam, ut mihi lekane dares, modellata sull’originale dedi tibi pecuniam, ut mihi Stichum dares. E’ questo che gli toglie il sonno la notte. Quella frase pronunciata per motivare la sentenza.
Neanche a don Turi, maestro ceramista e fine riproduttore di reperti archeologici, per la verità era andata bene, se era vero che – come aveva asserito durante l’udienza in cui fu ascoltato - la lekane gli era stata sottratta. Anche se qualche maligno insinuava che la tenesse comodamente in casa sua e la facesse ammirare, per come l’avesse ben riprodotta, solo a qualche appassionato che giungeva in paese da luoghi ignoti, apposta per guardarla. E che non era per niente vero, quindi, che fosse stata realizzata da lui.
Ma sia che l’avesse realizzata lui, che l’avesse poi smarrita, sia che gli fosse stata sottratta, o che la tenesse in camera sua e non l’avesse voluta più consegnare perché, come qualcuno andava insinuando, ne avrebbe scoperta l’autenticità, a molti sembrava ancora non vero che la “scerra”, come qui viene chiamata la lite, fosse stata decisa sulla base di un frammento d’epoca romana. Definita alla luce del parere di un giurista d’epoca imperiale.
Sembrava che il dottore Impallomeni, ancor più che essere impazzito, avesse solo voluto donare alla sua amata cittadina, il fascino, l’atmosfera e il ricordo di un’età ormai lontana, facendola, dritto dritto, catapultare in quell’epoca. Quella imperiale, quella di Augusto, di Adriano. E quella decisione, forse, altro non è stato che il modo per renderlo possibile, prima di congedarsi, dopo 40 anni di servizio.
Sta di fatto che il modo in cui aveva, in qualche modo, dato soluzione alla scerra, come qui viene chiamata la lite, aveva conquistato le prima pagine dei giornali, locali e nazionali. Qualche illustre penna scrisse addirittura, non privo di enfasi, che dopo secoli di silenzio “la storia bussava alle porte dell’Italia”.
A volte penso se non era, il putiferio scatenato, ciò che volesse proprio il dottore Impallomeni! Che nei giorni successivi alla decisione passeggiava in piazza con il piglio di chi sembrava godersela.
Vestito come un magistrato della Roma classica o un praetor di quella repubblicana. Sempre elegante, l’incèdere fiero, la fronte alta, il passo sicuro di sé. Non si può nemmeno dire che gli mancasse l’anello d’oro. Aveva pure quello. Non si sa se sia stata la passione per le vicende della storia romana, di cui Centuripe è ricchissima, ad averlo indotto a intraprendere gli studi di diritto, o al contrario fossero stati quegli studi ad averlo fatto appassionare ad essa.
Ma che fosse diventato pazzo, o che ci marciasse ancora, a distanza di tempo il dottore Impallomeni rimaneva convinto della sua decisione. E a chiunque - ed ancora oggi - si fermava con lui per farsela spiegare, per capire meglio cosa lo avesse spinto a prendere quella decisione, peraltro “fondandola” su un passo di Celso, il famoso giurista di epoca imperiale dell’età di Adriano, non si sottraeva e diventava anzi involontario protagonista delle discussioni che ormai da tempo si andavano svolgendo intorno al fatto, e spiegava, convinto dell’attualità sul caso, del frammento dei Digesta in 12.4.16, che era “preciso preciso, spiccicato, all’episodio tra don Alfio e mastro don Turi”.
In una di queste occasioni mi sono ritrovato pure io. Quel giorno un tale del gruppo con il quale passeggiava il dottore, gli fece notare che anche se il caso fosse preciso preciso spiccicato – come diceva lui – alla storia di don Alfio e don Turi, bisognava pure ammettere che da allora erano passati diversi secoli. Ma con fare risoluto senza per nulla scomporsi, il dottore, arrestò il passo, e mentre tutti gli altri fermavano il proprio e si chiudevano attorno a lui, formando un cerchio, dopo avere flemmaticamente finita la masticazione del quotidiano cannolo abbondantemente farcito di ricotta e adornato da quella meravigliosa delizia che è la crema al pistacchio, serafico rispose: “e chi lo dice?”
- “Vedete – proseguì con piglio sicuro, mentre gli altri sgomenti udivano – non si è trattata di una vendita, ma di una permuta".
- “Ma come dottore, - incalzò uno del gruppo – don Alfio, poverino, ha tirato fuori cinquecentomilalire per pagare il vaso”.
- “No!” Rispose il solito esperto del gruppo – “non è un vasu ma un lekane”. “Chi dici!”- aggiunse Antonio – “si dici la lekane e non il lekane, è femminile. Mu dissi mia figlia che studia all' università” – rimarcando.
- “Come si dice dice – aggiunse il dottore Impallomeni – la questione, miei cari signori, non è questa”.
- “Certo – ribattè un altro – è come dice il dottore, le cinquecentomilalire non valgono ormai come soldi. Don Alfio come poteva comprare il lekane…”
- “La lekane! La lekane, è femminle, mu dissi mò figghia che studia all' università”. Tenne a precisare ancora Antonio.
- “Va bene, va bene, ma la storia non cambia, la lira ormai è fuori corso, non vale più, ha ragione ‘u dutturi!”. Aggiunse Pippo.
- “Ma quali!” – ribattè infastidito il dottore Impallomeni – “allora, cari amici miei, non avete capito nulla."
- Ma allora dutturi – in coro tutti – come è sta storia?”.
“Amici miei – con fare elegante e distaccato, velatamente compiaciuto – non c’entra la lira o l’euro. Io non potevo condannare Don Turi a pagare Don Alfio per non avergli consegnato la Lekane, perché….”
- “Certo, ha ragione ‘u dutturi, a Don Turi il piatto glielo hanno fregato...” – lo interruppe un altro ancora – come glielo poteva dare?".
- “Ma quali! Chi dici, don Turi il piattu, o il lekane, o la lekane, ce l’ha a casa, in bella mostra. Voci di paese...” – riprese Pippo.
- “Signori, amici miei – continuò risoluto il dottore – la questione che la Lekane sia stata sottratta, smarrita, che sia vera o riprodotta, o cos’altro diavolo volete, non c’entra”.
- “Ma dutturi – ancora in coro tutti – ma sta storia ci scusi come è che è? Noi non ci stiamu capendo, con rispetto parlando, niente”.
- “Amici miei, se mostrate la pazienza di ascoltarmi, io ve la spiego. Come vi dicevo, io non potevo condannare mastro don Turi a pagare don Alfio per non avergli consegnato la Lekane, perché tra di loro non era avvenuta una compravendita, una emptio-venditio, come si sarebbe detto a Roma. Se si fosse realizzata una vendita, e cioè se don Alfio avesse corrisposto a don Turi un prezzo per la Lekane, don Turi, anche se l’avesse smarrita o, come dice lui, che le fosse stata sottratta, doveva andarsela a cercare, o rifarla uguale e dargliela.”
- “Mi scusi dottore, ma don Alfio non c’aveva dato soldi? Cinquecentomilalire, che significano duecentocinquanta euro?” - precisò Pippo - “vero dottore, Pippo ha ragione, anche se in lire, poverino, don Alfio voleva significare duecentocinquanta euro, che mastro don Turi si pigghiò”, ripetette un altro ancora.
- “Eh no! Non è come dite voi. Cinqucentomilare don Alfio ha consegnato a don Turi, che non avendo più valore, vogliono solo dire “merce”- ribattè il dottore Impallomeni. E riprendendo le redini della discussioni, “Vedete, avendo consegnato lire e non soldi attuali, cioè euro, ha consegnato della semplice merce, per avere in cambio un vaso…”.
- “Lekane dottore, Lekande, mi scusasse”, precisò Pippo, visibilmente imbarazzato.
Ricordo ancora il viso e lo sguardo del dottore Impallomeni, e il suo desiderio di volerlo fulminare se solo avesse potuto, ma riprese il suo dire.
- “Grazie, Pippo, grazie, lo sappiamo…”- con fare piccato.
- “In ogni caso la lekane…la lekane,... è femminile….” precisò Antonio
- “ Oh! Ma basta Antò, l’abbiamo capito, te l’ha detto tua figlia che studia all'università” – tutti in coro.
- “Quindi – riprese il dottore – come vi stavo dicendo, avendo consegnato “lire” e non soldi attuali, cioè euro, don Alfio ha consegnato della “merce”, per avere in cambio la Lekane. In sostanza si è avuto una sorta di baratto, l’antenato della permuta. Questo significa che in capo a Don Turi non è sorto l’obbligo corrispettivo di consegnare la Lekane. Ed invero l’unica cosa che io ho potuto fare è riconoscere a don Alfio il diritto di riavere indietro la sua merce, cioè le lire, che non sono il prezzo della Lekane. Dice infatti Celso che quando dedi mihi pecuniam, ut mihi Stichum dares, potrà solo chiedersi la ripetizione di quanto dato. E allo stesso modo in cui argomentò Celso a proposito di Stico, se la Lekane fosse andata distrutta, o non fosse appartenuta a don Turi, o don Turi non l’avesse voluta semplicemente consegnare a don Alfio, don Alfio poteva solo pretendere la restituzione di quanto dato a mastro don Turi. Celso è chiaro su questo punto. Dunque non c’è stata emptio-venditio!”.
Lo smarrimento di quanto udito, misto a un frastorno alienante di un po’ noi tutti, non impedì all’intraprendenza di Pippo di incìdere, con una sterzata, alla spiegazione del dottore.
- “Secondo me, don Alfio però, tanto innocente non è, perché secondo me, si voleva sbarazzare de’ soldi che non valevano più, e avere in cambio il Lekane…” – mentre tutti si girarono a guardare l’espressione di Antonio per zittirlo ancora prima che potesse proferire parola - …ed è rimasto – continuò Pippo - …fregato quando mastro don Turi s’è accorto che la Lekane era autentica e non gliel’ ha più voluta dare, oppure perché gliela hanno fregata per davvero”.
Ma la loro attenzione fu distratta dalla figura che iniziò a spuntare dalla stradella che la congiunge alla piazza, sullo sfondo della quale si staglia, altèra e maestosa l'imponenza dell'Etna. In quella sagoma, leggermente curva, la barba incolta, gli occhiali spessi e il bastone sul quale si andava poggiando di tanto in tanto, per camminare più speditamente, scorgemmo il profilo di don Alfio, che si avvicinava. E non si ebbe più dubbio alcuno che si trattasse di lui non appena si udì, sempre più nitidamente quella litanìa: “io l’ho pagato, gli ho dato i soldi, l’ho pagato, la lekane me la doveva far dare, sto cornutu! …Didi ti pacunia, anzi no, dedi a mi pecunia ...che avrà voluto dire, lo sa solo lui!".
Rino Palladino
Non è Bagnocavallo, è Bagnacavallo
Gli abitanti, in amicizia, la chiamano la Bagna. Forse perché è tutta sinuosa con quell'intricato giro di vie e viuzze che c'è da perdersi dentro, forse per quell'aria da contessa decaduta o forse perché c'è un periodo dell'anno in cui ogni anfratto si trasforma in osteria.
Bagnacavallo dunque.
E' una lunga storia quella del nome, ma riassumiamola così: di qui ci passa Tiberio, non Tiberio come per dire Tizio e Caio, Tiberio lui, l'imperatore. Pare però che pur essendo romanorum imperator, il Tiberio fosse costretto a girare in lungo e in largo per le strade di casa sua (l'impero) in sella ad un ronzino acciaccato e zoppicante. Finché non passa da qua. Qua c'erano paludi e zanzare, zanzare e paludi, ma la leggenda vuole che queste acque (e non le zanzare, quelle mai), fossero miracolose. Così miracolose, che il cavallo dell'imperatore passandoci al trotto, ne uscì con l'energia di un giovane stallone. Così dice la leggenda, ed i bagnacavallesi, che pur non abitando la ville lumière, ma solo una piccola abat-jour, un po' di grandeur ce l'hanno nel sangue, si sono messi il fumetto del cavallo nel motto dello stemma: ingredior rhoebus, cyllaros egredior: sono entrato malato e sono uscito sano. Così, giusto per chiarire da dove si proviene.
Bagnacavallo dunque.
Che chi ci viene per la prima volta, si perde. Il sommo avrebbe detto "lasciate la macchina fuori dal centro o voi che entrate", che sennò addio specchietto retrovisore. Ma non è per dire, perché il Dante nazionale, parla davvero della Bagna nella Commedia. "Ben fa Bagnacaval che non rifiglia", dice nel Purgatorio, facendo una lieve allusione ai numerosi conti e signorotti e nobili che per moltissimo tempo si contesero la città. E se a onor del vero ci sarebbe piaciuto più essere citati nel divertissement infernale piuttosto che nella lagna purgatoriale, non è che capita a tutti di guarire il cavallo di un imperatore e di essere menzionati dal Dantissimo.
Bagnacavallo dunque.
Un imperatore, il Dante e pure il dandy dei dandy, lui, il fighetto ante litteram, lord Byron che da Bagnacavallo passava per lasciare la figlioletta Allegra, mentre si dirigeva in quel di Ravenna per andare a spassarsela con la bella Teresa Guiccioli. La piccola di casa Byron venne infatti affidata alle cure amorevoli delle cappuccine di San Giovanni, ma solo perché il convento era tra i più noti della Romagna. Ma se avesse voluto, il Byron avrebbe avuto solo l'imbarazzo della scelta. Avrebbe infatti potuto lasciare la figliuola dalle cappuccine, ma a quelle di San Girolamo, dai francescani, dai Battuti neri o da quelli bianchi, all'ospizio delle fanciulle pericolanti, dalle nobili clarisse, dai girolimini o dai più mesti cappuccini, perché tanti a Bagnacavallo erano gli ordini religiosi. Ed ognuno aveva il suo convento, il suo chiostro, il suo orto, la sua chiesa. E ancora quasi tutto è intatto com'era. Chiostri, chiese, conventi che a passeggiare oggi a uno gli viene da chiedersi: ma quanto erano devoti sti bagnacavallesi????
Bagnacavallo dunque.
Dove venne anche il Gassman. A recitare la Divina di cui sopra. Ci chiediamo noi: poteva il Gasmman avere altri posti ove recarsi per declamare le cantiche dantesche? Crediamo di si, ma il Gassman venne alla Bagna. A Piazza Nuova, per l'esattezza, che nuova non è perché è della fine del Settecento. Questa piazza venne costruita per i macellai e i pescivendoli ed evitare così che il fetore delle carni pecorine contaminasse la piazza vecchia, che era quella destinata alle processioni, alle manifestazioni, alle corse dei cavalli e ai festeggiamenti, insomma la "piazza della domenica". Ma la nuova venne fatta così bella, che oggi, la sera, quando ti siedi in osteria e bevi un bicchiere di vino, e davanti hai l'ellisse, i portici ed un tetto di tegole antiche che ti separano dal cielo, ti sembra di essere in vacanza. Anche se è lunedì ed abiti a quattro passi dalla piazza. Per questo venne il Gassman, perché la Piazza Nuova, che nuova non è, è bellissima.
Bagnacavallo dunque.
E l'imperatore e Dante e Vittorio e l'aforistico Leo Longanesi e l'eclettico Thomaso Garzoni e il raffaellesco Bartolomeo Ramenghi, che qui, a Bagnacavallo, ci sono nati. Se non sapete chi è il Garzoni, sappiate che è il secondo dopo Erasmo, e se non sapete chi è Bartolomeo Ramenghi, sappiate che è il secondo di Raffaello, e se non sapete chi è Leo Longanesi, beh, questo no, questo dovete saperlo. E a Bagnacavallo, dove Leo è nato, esiste un giardino, chiamato "dei semplici" non perché frequentato da persone meste e senza pretese, ma per via qui che vi si coltivano le erbette officinali o quelle che servono tutti i giorni: la salvia per i tortelli, il basilico per il sugo, l'erba cipollina per gli strozzapreti. E se le erbe le hai, puoi andare al giardino dei semplici (e ci puoi andare anche se sei una persona complicata), e sederti su una delle panchine che costeggiano il giardino. Non sono panchine qualsiasi, sono le panchine di Leo. Su ogni schienale c'è scolpito un aforisma di Longanesi, così che vai, leggi l'aforisma, ci rifletti sopra e magari ti vien fame e raccogli un po' di prezzemolo per il battuto.
Bagnacavallo dunque.
E si potrebbe andare avanti e raccontare dei sotterranei che attraversano la città, di un convento francescano che ti appare innanzi con tutta la maestosità dei suoi ottocento anni, di un cinema all'aperto - che oggi chi non ce l'ha - ma che qui c'era già trenta anni fa, di un teatro chiamato "la piccola scala", di una pasticceria chiusa da tempo, ma ancora arredata come l'ultimo giorno, di un balcone da cui si affacciò Pio IX o di quando Sofia Loren e Alberto Sordi girarono per le vie del centro, ma vorrei finire in dolcezza. A settembre, quando si festeggia San Michele, santo guerriero protettore della città, ogni forno, bar o pasticceria, vende "la torta di San Michele", un dolce che non lo mangi da nessun'altra parte e neanche qui durante il resto dell'anno. Un dolce la cui ricetta è segreta più di quella della coca cola, che si vende al costo di una pepita d'oro, che solo a guardarlo si assumono le calorie pari al fabbisogno giornaliero di un minatore, ma che è, semplicemente, buonissimo. E le famiglie fanno la scorta e i parenti lontani chiedono di spedirglielo per posta e quando vai per comprarlo e vedi il cartello "il dolce di San Michele è finito", sai che è finita anche la festa, che è finita l'estate e che inizia allora, solo allora, l'autunno. Quello vero.
Questa, un po', è la Bagna.
N.d.R. Le esigenze narrative mi hanno portato a sovrapporre alcuni secoli e vicende, ad essere approssimativa e un po' superficiale, ma tutto quello che ho scritto è verità, la verità delle fonti e della storia orale e se non ci credete, venite di persona a verificarlo. A Bagnacavallo ovviamente.
Patrizia Carroli
Caslino al Piano una località nel verde e nella tranquillità
Dicono che per scrivere un autore abbia bisogno di tranquillità, Beh il paese dove abito è l’ideale meta di chi ha bisogno di pace, e di staccare un po’ dai rumori delle città.
Caslino al Piano si trova sulla Strada Provinciale S30 a circa 12 km da Como città, ed collegata anche dalla linea ferroviaria Milano – Como.
Nel lontano 1335 Caslino era un comune a sé, chiamato “ Comune Loci de Castellino”, ma inseguito alla subentrata di nuove leggi nel 1928 venne aggregato al comune di Cadorago.
La parrocchia di S. Anna in Caslino al Piano, fu eretta con decreto il 30 novembre 1916 dal vescovo Alfonso Archi, sotto il territorio della parrocchia di San Siro di Lomazzo. Anticamente Caslino era parte della diocesi di Milano; ora invece è sotto la diocesi di Como. La nuova parrocchia venne ad appartenere al vicariato di Lomazzo. Il 26 luglio, cade la festa del Patrono, e il centro abitato prepara in largo anticipo le vie, dove passerà la processione. La tradizione vuole che una settimana prima, iniziano le messe cantate da una corale di un comune adiacente. Per attirare turisti che accorreranno numerosi, saranno allestite bancarelle con dolciumi vari, la pesca di beneficenza e le giostre.
I pochi giovani rimasti, soprattutto in età scolastica, si ritrovano al parco giochi o al campo da basket che sono un po’ il cuore del piccolo borgo.
Caslino al Piano è collegata tramite il Parco Lura, con vari paesi, partendo da Oltrona San Mamette giungendo fino a Lainate. Sotto la protezione del Parco Lura, di cui la sede principale si trova collocata vicino alla chiesa, ci sono i boschi e il Laghetto Pasquè, dove vivono molte specie ittiche.
Nella frazione vi è anche una sorgente di acqua minerale, imbottigliata dall'azienda Spumador conosciuta in quasi tutta l’Italia per i suoi prodotti quali: Acqua Minerale (naturale e gassata), Spuma, Gassosa, Aranciata (dolce, amara e rossa), Ginger (Dry) e RC Cola.
Le vecchie corti, si uniscono a nuove costruzioni, formando così una cittadina che si fonde con il passato e il presente, lasciando lo spazio al futuro. Purtroppo delle antiche botteghe non è rimasto nulla, solo un ricordo nascosto dietro a serrande arrugginite e vetri impolverati.
Gli abitanti del paese, conosciuti anche come Caslinesi, sono per la maggior parte costituiti da persone di una certa età, che vivono qui da parecchie generazioni; la lingua parlata oltre all’italiano è il dialetto comasco.
Quando giunge la notte e le luci delle case si spengono, Caslino si addormenta come cullata da una brava mamma, coperta da un lenzuolo fatto di cielo stellato e come cuscino una luna piena.
Solo i rumori delle auto e le sirene dei mezzi di soccorso, interromperanno il suo sonno, in attesa di un nuovo giorno.
Paolo Verga
Quattro passi per Bra e..dintorni
«Con neanche cinque litri di benzina il forestiero può arrivare a Bra da Torino, andando sempre diritto. La strada l'hanno asfaltata di recente, corre liscia lungo il bordo delle colline e ci sono bei rettilinei per lanciare la macchina e boschetti di albero anche, dove, se avete la ragazza, potete fermarvi un momento in pace».
Giovanni Arpino - "Regina di cuoi"
Ma questo itinerario alla scoperta di Bra si fa a piedi, basta avere le scarpe adatte e gambe “buone”!
Bra, una città particolare … Già nel nome tronco, sul quale indugia il dubbio di un accento o di un apostrofo s’indovina qualcosa di particolare, di indefinito, quasi l’ombra della ricerca di una propria identità.
Bra, una città di difficile catalogazione, dunque singolare, dunque interessante. Soprattutto una città che pretende di essere capita!
La verità è che esistono diverse Bra, storicamente stratificate e accostate l’una sull’altra: c’è la città romana, c’è la città medievale, c’è la città delle ciminiere, c’è la città letteraria di Giovanni Arpino, di Velso Mucci e di Gina Lagorio, quella di Giuseppe Benedetto Cottolengo, quella dell’aroma dolce e stuzzicante che proviene dall’ultima pasticceria del centro e quella del profumo inebriante dei tigli dei giardini di periferia.
Scoprirle è un gioco affascinante che riserva non poche sorprese.
Partiamo dunque alla scoperta di Bra, non di quella che si presenta agli occhi del turista che vuole vedere, ma piuttosto della città dalle sottili emozioni che si fissano nel nostro cuore per sempre.
Il percorso può iniziare da Palazzo rosso, vecchia costruzione che di rosso oggi ha l’intonaco, ma che deve il suo nome (storpiato) al suo antico proprietario, Gioacchino Ternavasio detto il “Russo” (perché pare fosse tra i pochi reduci braidesi della Beresina). Esso si erge solenne sulla parte alta di via Garibaldi e non si distinguerebbe da altri vecchi edifici, se non avesse un suo segreto. Nelle sue cantine esiste un blocco centrale lavorato a prisma dal quale si snodano a raggiera diversi cunicoli, scavati nel tufo, che immettono in altre rotonde. Sulle pareti di cunicoli e rotonde corre un doppio cornicione che sorreggeva, fino al 1950 circa, interminabili file di bottiglie. Si dice potesse contenere fino a 400.000 bottiglie. Uno de corridoi conduce diritto sino al castello di Pollenzo che dista da Bra circa sei chilometri! Era una via di fuga della città medioevale che, a quel tempo, era protetta da alte mura.
Al periodo medioevale risale Palazzo Traversa che si trova poco più in là, in via Serra: la sua facciata, molto severa, è sormontata da merli ghibellini. Due portali neo-barocchi conducono all’interno, dove ha sede il museo archeologico.
Proseguendo per la parte alta della città possiamo giungere alla “Zizzola”.
Quando si parla di Bra, il pensiero di chi già la conosce, la associa immediatamente a questa costruzione. Si tratta di una villa di forma ottagonale, costruita verso la fine del Settecento proprio alla cima della collina denominata “Monteguglielmo”. In origine era una villa di campagna che i ricchi proprietari aprivano agli amici per feste e ricevimenti. L’edificio fu poi donato al Comune di Bra con il vincolo che fosse destinato a sede di attività di carattere pubblico ed il terreno destinato a giardino o parco pubblico. E così è avvenuto: oggi nel parco si tengono concerti e molte manifestazioni culturali, soprattutto nel periodo estivo.
Scendendo da Monteguglielmo ci dirigiamo alla collina della Favorita, dove si trova una bella casa in puro stile Liberty. La villa, di proprietà privata, è stata costruita nel primo Novecento proprio in un luogo dove un tempo nessuno avrebbe voluto viverci in quanto lì, la gente diceva che “si sente” e “si vede”. Ma che cosa? Ebbene sì, i prati e i boschi attorno sono abitati dalle masche. Nella notte strani rumori e risate stridule accompagnano lo stormire delle fronde ed ombre bianche danzano sullo spiazzo antistante la villa. Più di una coppietta venuta ad appartarsi nei pressi della villa è stata costretta a fuggire più che in fretta, disturbata da luci improvvise e da fruscii inquietanti.
Oggi le voci del televisore ed il rumore del motore delle auto che arrivano anche qui hanno spaventato le masche che escono solo quando i proprietari vanno in vacanza.
Proseguendo per la strada che si snoda giù per la collina si arriva a San Matteo. È bello scendere al borgo per la via erbosa e di qui inoltrarsi fino al bosch del disné o al valön d’le spine. Lì, se sei fortunato e capiti dopo un temporale estivo, ai piedi dei pioppi e delle nocciole selvatiche puoi trovare le “matote ruse” e le “matote grise”, che non hanno nulla da invidiare ai nobili porcini.
Torniamo verso il centro-città con la strada comunale, o meglio ancora con la romantica scalinata che taglia le ripide curve e ci si trova quasi davanti il Santuario della Madonna dei fiori. Questa è una delle Madonne più importanti d’Italia o, addirittura del mondo! Infatti è tra le poche che tutti gli inverni, da 678 anni, puntuale, fa il suo miracolo. Il 23 dicembre, anche con la neve ed il ghiaccio, le siepi di pruno che crescono attorno alla chiesa, si coprono di fiori profumati e candidi (con un anticipo di tre-quattro mesi rispetto alla normale fioritura).
Di grazie a Bra la Madonna ne ha dispensate tante. Le meno importanti (e sono centinaia!)
sono ricordate dai quadretti e dagli ex-voto appesi sia sui muri del vecchio santuario che in un locale attiguo. Per quelle “grosse” i beneficiati hanno fatto costruire dei pilonetti. Così se ne trovano parecchi, sparsi un po’ qui un po’ là per la campagna, custodi solitari della natura e testimoni della misericordia divina.
Altro luogo reso sacro dalla presenza dispensatrice di grazie della Madonna è Fey dove sorge una cappelletta che ricorda uno dei fatti più importanti della storia di Bra.
Era l’anno 1552. In seguito alle guerre tra Francia e Spagna, il Piemonte era diventato teatro di scontri furiosi. Bra era caduta in mano ai Francesi, mentre la vicina Cherasco era in mano agli Spagnoli che la tenevano in nome del duca di Savoia. Questi la notte del 22 gennaio riuscirono ad entrare in Bra ed i suoi difensori furono presi ed impiccati. Alcuni però, guidati dal capitano Brizio, riuscirono a fuggire per la strada che dal Monteguglielmo andava a sboccare nella valle di Fey. Giunti qui, allo stremo delle forze, si inginocchiarono e si raccomandarono a Maria. In effetti gli Spagnoli non li trovarono, così il capitano, a conflitto terminato, fece innalzare un pilone votivo che dedicò a Maria Vergine d’Egitto (anche Lei in fuga, era riuscita a salvarsi dai sicari di Erode). Verso la fine del 1600 il pilone venne abbattuto e sostituito con una piccola cappella, la stessa che esiste ancora oggi.
Il volto di una città si scopre non solo visitandone gli edifici più importanti od ammirando i monumenti (molto numerosi a Bra), ma curiosando anche negli angoli più nascosti, fermando lo sguardo su particolari apparentemente insignificanti: solo componendo tutte le tesserine di un puzzle si riesce a costruire l’immagine completa!
Ebbene facendo quattro passi in centro osserviamo i batacchi dei portoni delle case più vecchie, gli androni oltre i quali si indovinano vetusti giardini, i cortili silenziosi, gli affreschi di Madonne sui muri di case private, i bassorilievi in stucco raffiguranti scene sacre, resti di finestre gotiche su muri ormai rifatti e decine di comignoli dalle forme più strane che sin da metà ottobre dipingono il cielo con pennellate di fumo.
È anche attraverso questi esili e talvolta sottovalutati legami tra passato e presente che si ricreano le condizioni affinché Bra smetta di essere un agglomerato di case, chiese e negozi e riveli la sua vera identità.
E se poi dopo questa bella camminata sentite un certo languorino allo stomaco non resta che mangiare un buon sanguis di pane e salsiccia, di Bra naturalmente!
Margherita Corrado
In Itinere
Italo-bovesano
Qual è la mia città? potevo pure titolare questo primo paragrafo. Già, qual è? Quella natale e dove vivo è Torino, ma quella quasi adottiva è Boves. Rispettivamente, gigante e gnomo. Solo per dimensioni fisiche, si badi bene, non storiche. Sennò le parti si invertirebbero, mi sa.
Boves, caso unico in Italia, è la sola città a fregiarsi sia della medaglia d'oro al Valor Civile che al Valor Militare. E girandola te ne accorgi, lo capisci. Sotto il portico del municipio, accanto alle mappe murali degli incendi nazisti sono scolpiti nel marmo centinaia di nomi: le incolpevoli vittime civili del fuoco ariano del comandante Peiper. Niente del genere, a Torino. O magari sì, ma più in piccolo, disperso in mille rivoli: insomma passa inosservato. Mentre a Boves il recente passato non può che essere onnipresente ai cittadini, additato com’è da doverosi monumenti nelle due piazze maggiori, concentrato in uno spazio tanto più esiguo.
Forse dovrei correggermi, e invertire davvero i nomi...
Torino e Boves: gnomo e gigante.
TO-FI(H2O): 1000 a 1
A Firenze, è un dato di fatto oggettivo, le fontanelle pubbliche scarseggiano. Almeno fino a pochi anni fa, ammesso che la situazione sia cambiata. Ed è un paradosso, vista la vocazione della città al turismo. L'unica che avvistai, triste, solitaria e apparentemente morta e mai risorta, si ergeva sbilenca su una banchina della stazione di Santa Maria Novella. Insomma non aveva un bell’aspetto, posto che vi sgorgasse qualcosa.
A Torino, viceversa, non si può dire che manchino. Quasi tutte verdi e cornute, visto il simbolo della città. In quest’ottica, a Firenze dovrebbero essere gigliate. Ma come si diceva, là niente fontane. Nemmeno alla stazione. I gigli, là, li trovi solo fra i preziosi delle vetrine di Ponte Vecchio. Ma non c’è campanilismo, in questo. Tant’è che mi chiedo se sia davvero razionale, il fiorire di così tante fontane nella mia città. Ovvero: inutile spreco d’acqua. O troppo o niente, insomma. Diciamo che qui non rischi di morir di sete. Specie in periodo di assiduo pellegrinaggio “sindonico”, dove non mancano turisti e torpedoni presso le rosse Torri (Palatine). Dar da bere agli assetati, disse qualcuno (restando in tema). Ma se ci fossero anche rubinetti e chiavette sarebbe meglio, dice qualcun altro.
Torino, culla delle fontanelle.
sTOici taurinensi
In principio erano le stoá, oggi sono i portici. Torino non ne ha l’esclusiva, beninteso, né di certo la maggior estensione. Ma proprio perché ne ha pochi ma buoni, si fa presto a confrontarli. I principali sono quelli di via Po e via Roma, o facciam finta che sia così (suspension of disbelief docet). Salta agli occhi che sono due pianeti diversi, e non solo architettonicamente. Via Po è ottocentesca e romantica, via Roma novecentesca e fascista. Differenze che noterebbe anche un profano. Tanto raccolta e armoniosa la prima, quanto squadrata e metafisica la seconda; librerie, bancarelle e profumi di vita in una, fredde e asettiche vetrine di negozi d’abbigliamento nell’altra. Volti pregnanti, ma solo in una delle due. Via Po e l’ideale proseguimento di via Pietro Micca e via Cernaia, è la Prospettiva Nevskij di Gogol: brulicante di grottesco e adorabile kitsch. Una è la Vita, l’altra un’arida luna.
Profonda notte
All’estivo “Dario Argento by night 2009” – se così vogliam definirlo – io c’ero. Evento unico e irripetibile, direi. Si proiettò in piazza CLN Profondo rosso, accompagnato musicalmente dal vivo. Per una volta, quella via Roma così razionalistica è diventata un cadavere che per qualche miracolo esce dalla bara (metafora in tema). Gli spettatori, o seduti sulla carreggiata o sotto i portici, avrebbero riempito un liceo. Io, zombie insofferente e girovago, rimpallo da un baretto all’altro (ma senza consumare), fra l’inquietante carnaio. Aggredito dai decibel fuori misura del palco. La fontana allegorica del Po e della Dora, dietro il maxischermo, a (as)sorbirseli tutti, dal primo all’ultimo.
In sordina, solo gli sguardi fra tanti sconosciuti. Lì per sentirsi urlare nelle orecchie da donne tagliuzzate. Nella piazza che fu davvero un set del film.
Oktorinerfest
Una birra e una salsiccia... Una birra e una salsiccia... Non è una sequenza di Altrimenti ci arrabbiamo. È che ogni tanto, in giro per Torino, dove meno te l’aspetti spuntano fiere itineranti del gusto, all’aperto. Ed è una girandola di brasserie e girarrosti, quella che ti allieta vista e olfatto, se per caso ti capita di passar da quelle parti (e io mi ci trovo sempre, guardacaso). Oppure potresti vedere qua e là allegre famigliole di salami – nel senso “insaccato” del termine – formaggi, arrosti fumanti, affettati e ogni salsa nota e ignota all’uomo. Raro però che il cibo sia solo: e così si passa dal profumo di porchetta a essenze e saponette, e più in là a plastiche, resine e gomme di giocattoli. Caos organolettico totale.
Eppure lì, fra quegli stand, Mr. Colesterolo è in agguato. Aspetta solo che ti lasci tentare dai gastroeffluvi... e voilà, per lui è fatta (e per te pure). Una birra e una salsiccia... Una birra e una salsiccia...
Fra TO e CN
Cuneo, in mezzora la giri.
A Torino, in mezzora a momenti non traversi neanche la strada, per citare un cult di Pozzetto.
A Cuneo, l’arteria principale taglia perfettamente a metà la città (in due “semiCunei”, direbbe un pitagorico buontempone). Il primo tratto, via Roma, è più antico, e suggestivo, e raccolto. Il proseguimento, che a partire dalla centrale piazza Galimberti cambia il nome in corso Nizza, è visibilmente più recente. Entrambi i tratti sono porticati.
La via Roma di Torino è invece un duplice porticato postmoderno – vedi tre paragrafi fa – privo però di grandi attrattive estetiche. Mentre via Nizza si fregia di portici solo nel tratto finale di San Salvario, a ridosso della restaurata stazione di Porta Nuova. Qui, sotto volte sabaude, locali etnici e no vedono il via vai di varia e dolente umanità.
Cuneo e Torino: da entrambe scorgi le Alpi (Marittime) innevate, ma rispetto alla seconda la prima ne è una versione più vivibile, e mignon.
L’è un bel (?) Milàn
Milano? Non mi piace. Aggiungo che nel complesso, secondo me, con Torino non c’è gara. Nemmeno stavolta è campanilismo il mio, ma mero gusto estetico (giuro). Anche se alcuni corsi meneghini reggono il confronto con New York City per aspetto e larghezza, io continuo a preferire la cara e “vecchia” Turin di Macario e Gozzano (e tanti altri). Certo, quando si parla di «Duomo Italiano» per eccellenza viene subito in mente la dorata Madonnina e le sue guglie, mentre il barocco dell’edificio torinese by Guarini & Juvarra passa in secondissimo piano, e anzi quasi si dilegua. Ma al netto di ciò, nulla ha Torino da invidiare alla sorella nordica, in fatto di attrattive. Al Duomo di Milano risponde con Superga, a Brera con la Galleria Sabauda. Sennonché Milano non ha collina, Torino sì. E con un po’ di fantasia, persino il placido Po può diventar la Senna, la Mole una sorella minore della Tour, e l’eburnea rampa della Gran Madre una Montmartre senza pretese.
Fumettorino
Per chi ama fumetti e cartoon, Torino offre almeno tre ghiotte vetrine all’anno: la mostra-mercato di “Torino Comics” in primavera (al Lingotto), e le due “Torino Fumetto” sotto le tettoie del mercato di via Madama Cristina. Nel primo caso è previsto un biglietto d’ingresso, nel secondo no. Ma certo “Torino Comics” ha una marcia in più, e vale sempre il prezzo pagato. Oltre a migliaia di fumetti e gadget inerenti, puoi trovarci incontri con semivip nazionali e no, doppiatori a profusione e star dei più noti blockbuster di oggi e di ieri. Sempre se riesci a non farti strizzare a morte dalla ressa dei cosplayer più disperat… ehm, disparati. Trattasi, com’è noto, di un nuovo e terrificante stadio dell’evoluzione umana, dove ci si mette a nudo soltanto, per paradosso, sotto mentite spoglie, travestendosi. Sono i sogni che, una tantum, come a Carnevale, fanno a botte col reale. O moderni Saturnali in maschera, se preferite.
Emiliano Racca
La musica di Pomarico
"Smettila, Antonio! Prepara u' bagaglio tuo, che ma' partì".
Una voce di madre spezza le reni alla sera, mentre il cielo di Pomarico ha tolto la solita nebbia; quasi ad agevolare il viaggio del sarto Camillo Calicchio, che prende il braccio di sua figlia Camilla e si prepara al lungo cammino. Perché la famiglia amputata di moglie per la peste appena sfiorita nel cimitero del paesino materano, è composta solo da Calicchio padre e la sua giovane prole; la giovane che già in giovinezza s'è fatta portare il saluto d'un bambino da un usurpatore delle terre pomaricane. Fuggito prima lui, evidentemente. E Antonio. Anche Antonio è pezzettino della famiglia, nonostante l'ufficiale di casa quasi eviti un contatto affettivo col bambino.
Il piccolo, raramente in linea con le avanzate di nonno e mamma, si chiama anche Lucio. Il secondo nome, infatti, lo si trova messo in calce all'Università di Pomarico. Prima che questa fosse sostituita dall'odierno Municipio e uffici anagrafi vari. Il cognome? Ancora Calicchio, certo. Per fortuna non di nuovo Antonio Lucio Camillo Calicchio. Almeno fino a quando a Venezia arriverà un signore a far matrimonio con Camilla, e il bimbo divenuto presto adolescente diventerà finalmente e per sempre Antonio Lucio Vivaldi.
Camillio Calicchio ha fatto il sarto dal 1650 al 1655 nel suo paese natale. Ma i resti della peste si chiamamo miseria. Le famiglie paesane difficilmente possiedono vestiti da rattoppare o la possibilità di farsene cucire. Mentre i signorotti da Pomarico hanno traslocato ben prima che l'epidemia falciasse la gente normale. Dispiaciuti grandemente di non esser riusciti a portar via con loro le piante mediterranee del bosco di Lama Ferrara o le volpi e gli istrici che nella foresta incantata fra un acero e un orniello si son fatti casa e territorio di caccia. Allora Camillo il bosco l'ha potuto conoscere. Ha viaggiato spesso nelle sue viscere a cercare i funghi e addirittura a caccia di cinghiali. Un giorno, pensate, si scontrò con una cappella che i Donnapentola avevano issato nella foresta a forza di pietre di fiume e fatica dei contadini a servizio. E pensate che i Donnapentola avrebbero voluto metterla nei loro carri, se avessero trovato il modo da spiegare ai servi. Il bosco di Lama Ferrara è ancora immenso. Seppur gli incendi ne hanno rovinato parti del corpo. Ma Camillo Calicchio e tanti altri popolani lo sentono dentro, quasi fosse più il bosco il luogo della fede. Invece che la chiesa piazzata nel ventre del borgo.
Una giorno Antonio era riuscito a strappare al nonno il consenso d'accompagnarlo in una visita a Lama Ferrara. Aveva sentito parlare di tassi e volpi, e gli animali scalpitavano nella sua immaginazione. Saltavano, correvano, provocavano frusii fra le piante. Il risultato della fantasia dava ad Antonio Calicchio quasi una musica che nessuno ancora gli aveva fatto sentire. Sorrideva in solitudine, Antonio. Mentre nella sua mente la musica si faceva quotidiana, nelle sue solitudini Antonio trovava una bella compagnia.
Nunzio Festa
Attraverso lo scorrere dei passi, percorro strade, marciapiedi e stagioni
Parma, la mia splendida città, poi, si presta benissimo alla mia vita di runner estremo, regalandomi scorci che se non li vedessi passandoci con il mio incedere costante, andrebbero persi privandomi di uno dei piaceri della mia esistenza; il Torrente Parma che diventa Baganza con l’acqua che in alcuni tratti del suo corso è talmente trasparente da tentarti di berla; il Ponte Italia con le migliaia di facce e di vite che in ogni ora del giorno lo percorrono; il Parco Ducale dove lo scorrere delle stagioni si riconosce oltre che dal cambiamento dei colori e delle forme degli alberi, anche dal rumore del calpestio delle scarpette sul selciato, d’estate più secco, d’autunno più chiassoso, e d’inverno più morbido; arrivare a Vigheffio e donare un sorriso, fermarsi per una foto e ripartire con il cuore pieno d’amore, regala un senso ancora maggiore a quello che alla vista di un occhio non attento è un semplice gesto atletico, un automatismo imprescindibile della mia vita e poco più.
Ma non è così tutt’altro, a volte persino una giornata di pioggia, può porgere alla mia lenta processione, un’aria più intrigante, il contrasto tra il cielo minaccioso, scuro e tempestoso e la cima del Duomo, in un attimo girarsi e vedere la Chiesa della Steccata riflessa in una pozzanghera.
A volte, sono arrivato molto più lontano grazie alla mia caparbietà, inerpicandomi dove pochi riescono ad arrivare, e vedendo scenari, come il tramonto dalla cima del Monte Grappa, che sono riservati a chi non smette mai di provarci e lentamente riesce a salire sempre più su.
A volte, sono arrivato molto più lontano grazie alla sopportazione al dolore, alle piaghe nei piedi, ai giramenti di testa e alle ginocchia dolenti, riuscendo a godere dell’alba dopo un temporale, della brezza estiva dopo una giornata di sole e incontrando centinaia di cuori desiderosi di sospingermi a prolungare ancora di più il mio cammino.
Emozioni uniche e forse indescrivibili, un premio alla fatica le chiamo io!
Ma adesso, risvegliandomi da questo breve sogno, è già ora di infilare di nuovo le scarpette e disegnare ancora una volta la strada, i ciottoli e il porfido sotto i miei piedi, senza impormi una meta ma lasciandomi trasportare dall’atmosfera magica che si respira tutt’intorno, incrociare passanti che curiosi, a volte scuotono la testa, altre probabilmente si chiedono se io sia appena partito o quasi arrivato, altre incrociano fieri il tuo sguardo scambiando un saluto trasmettendoti il loro essere fieri del tuo essere runner.
Auguro a ognuno, di provare un’empatia così armonica nei confronti di quello che spesso non ci accorgiamo esserci, ma che con un paio di scarpette, un po' di fiato e tanti passi miracolosamente si manifesta in tutta la sua bellezza.
Salvatore Canna
Grosseto mia
Grosseto, se vuoi vederla, non devi essere un turista frettoloso, ma addentrarti piano piano nel suo corpo di città, come un contadino o un maestro, col sorriso buono di chi ha compreso come le cose devono andare per forza di natura.
Grosseto, devi iniziare a vederla dal contorno. Il mare, prima, grande che ci si potrebbe affogare, con quelle spiagge fine come oro, oro che brucia e che luccica, che si infila tra le dita dei piedi, finché, sul bagnasciuga, si scopre a volte una flottiglia di conchiglie rotte, come cocci che raccontano un’altra vita. Il mare su cui si affacciano a tratti scogli e le onde spruzzano il loro viso grigio e attonito, in un gioco ora fanciullo, ora di malcelata ira verso un genere umano forse non sempre buono.
Grosseto, devi vederla prima dalla campagna bionda di grano, quando il caldo ha imporporato i sorridenti erbai di papaveri a frotte, che si confondono a creare macchie come un rossore su guance di donna. Devi vedere questa campagna distesa, dove spuntano, salendo verso l’Amiata, righe di vigneti, capelli pettinati in lunghi filari, interrotti da chiazze di olivi d’argento, dove, a volte, col volo a circolo, pronta ad afferrare la preda, qualche poiana interrompe la chiarezza del cielo.
Grosseto devi prima vederlo e conoscerlo e imparare ad amarlo nei boschi di quel verde maturo, deciso, che diventa di un azzurro quasi come la notte sul monte, dove i lecci lasciano il posto ai castagni. Devi conoscere prima la volpe silenziosa, il capriolo che si scaglia, con un moto improvviso e un poco bambino, nel mezzo alla strada, buona strada che taglia a metà, passando, la distesa immensa della natura maremmana.
Grosseto devi conoscerlo dal mare al monte, attraverso la pianura dove si scorge a malapena qualche pino a delineare l’orizzonte, attraverso la calma collina, buona che sembra un ventre materno e mite e dolce nel declinare, inghiottita dal colore di rosa di un’alba inattesa.
Grosseto, prima di condannarlo a un anonimato sciocco, devi conoscerlo così, nella sua calma, nella sua verità di terra e frasche, nella sua verità di terra contadina, donata ai semplici in parte dalla mano buona di Dio, in parte da un’opera tutta umana di bonifica di grandi acquitrini.
Solo poi, così, dopo aver visto tanta bellezza e tanta nudità, dopo aver disteso il tuo sguardo, aver seguito con il tuo corpo la rotondità delle forme dei grandi casolari, che, anche negli angoli aguzzi, hanno un che di flessibile e buono; solo dopo potrai avventurarti, sorta di nuovo pellegrino in luogo straniero, in questa cittadina di provincia (se ancora le provincie hanno un senso), in questa città che si presenta tutta aperta e tutta giovane come me che scrivo di lei.
Chi dicesse, pensando di offendere, che Grosseto è senza storia direbbe una grande verità. Ma non perché non siano sorte un tempo mura che incorniciassero il volto di sposa di questo mio luogo, bensì perché essa sa rinnovarsi continuamente e forse anche, dimenticata dietro nomi più alti, perché sa conservare la sua freschezza di sposa e cancellare le tracce lasciate da altri mariti. Forse perché la buona popolazione che la abitò non ebbe mai manie di grandezza e preferì conservarsi contadina e semplice.
Per questo se metterai piede in questa città, lascia le aspirazioni di vedere e toccare e adorare marmi e pitture sapienti. La bellezza è qui questa semplicità un po’ rustica –mai rozza- con cui si contraddistinguono i muri e i giardini delle case.
Grosseto ha cortili ampi e grandi alberi che bucano i marciapiedi, che ne escono su con qualche cosa che ha ancora un che di felice, di vivo, che ancora ha un che di campestre e gioioso.
Grosseto ha le case dove la gente si conosce ancora abbastanza, dove ci sono molte finestre, molti giardini, molti cani che si affacciano dai balconi e molte vecchie signore che credono in Dio, che si ricordano altri tempi e molti vecchi signori che, poco fuori, hanno un orticello dove tirano su un po’ di patate e due pomodori.
Non è una città di traffico, se non in qualche ora e comunque mai da coda. Non è una città di gite organizzate e di guide turistiche. È una città di gente, che passa, che va, che viene, che compra, frequenta il cinema, la palestra, si scambia a volte un sorriso, a volte niente.
Se questo lo consideri triste, triste è Grosseto, soprattutto quando piove e la pioggia allaga la Stazione, dove pochi treni fanno sosta, certi pullman si fermano a caricare gente (studenti, soprattutto) per ricondurli alle loro case, disperse sul vasto territorio di questa città quasi dimenticata.
Se credi che sia triste non avere nel corso buoni saltimbanchi che con giochi di prestigio intrattengano i nostri giorni noiosi, allora sì, triste è questa città dove sono nata e che conosco nei suoi occhi che si perdono nei tramonti più insignificanti.
Se credi triste che i giovani se ne debbano andare a studiare altrove, allora ecco la più triste città, priva di troppe facoltà, priva di molte possibilità e persino di un nome.
Se credi triste che molti non sappiano e non si interessino della bontà mite di questo luogo senza origini, di questo luogo come passo tra due universi; se credi triste che nessuno venga, nessuno passi, nessuno si riconosca e soprattutto nessuno scriva elogi di questa terra buona, allora forse è triste e quasi disperato questo mio scrivere.
Ma Grosseto non è luogo di felicità o di tristezza, non è luogo di gite di un mese, un anno o un giorno. È un luogo di vita, dove bello come non mai è trovare una casetta, un poco fuori, metter su famiglia e poi scoprire che lì si va a scuola, lì c’è quel negozio e di là vive la brava signora Anna, che ha tanta vita da raccontare e si sente un poco sola.
Non è città per gente che voglia conoscere o vedere l’arte e la profonda onda della vita; mite e infinitamente piana è Grosseto, città di mare, di monte, di terra, di contadini che vanno, che tornano, che passano, di brave persone, dove qualche volta qualche ubriaco matteggia, dove si può ancora possedere un campo, un orto, un olivo almeno. E se non altro se stessi, la propria vita umile e semplice.
Questa è Grosseto e in due modi soltanto si può amare: o passando, correndo via su un’automobile che non ha tempo, che ha la fretta scritta sugli sportelli, trascinando via pezzi di paesaggio, immensi campi, alberi e pecore e boschi e mari e pinete fitte e qualche paesino, piano o arroccato su un sasso; o fermandosi per sempre, alla ricerca della pace, di una casa dove non servano bellezze, nomi illustri, famosi sorrisi ad alto prezzo, grandi targhe di un passato che non si dimentica e la vita frenetica, trascinata via, sempre più in fretta, dalla morte, che bussa alle porte, più spesso, di chi meno l’aspetta.
Giada Perciballi
Pontedera: Tour imperfetto ed eccentrico nella mia città
Non ha la grazia fine o la bellezza rustica delle città più grandi che occhieggia da lontano, la mia città. Di Pisa e Lucca avverte la storia, di Livorno la luce. Di Firenze –più lontana- sente con rispetto il fascino, ma Pontedera no, non compete con le altre, non si gira se qualcuno da qualche parte fa un cenno a –mettiamo- “la perla della Toscana”, né arrossisce, pensando che si stia parlando di sé, se un turista è a caccia “degli angoli suggestivi e più reconditi”. Sorella maggiore un po’ scontrosa, finge di non sentire le lodi intessute per le più piccole Volterra e San Miniato, e il pulviscolo fitto dei “borghi medievali più belli della Toscana” la circonda, ma non la raggiunge.
Eppure…
Eppure non è affatto una brutta città, la mia città, ha la sua vivacità, un passato prossimo produttivo, un passato remoto strategico, un sogno d’arte che guarda al futuro. Ha la bizzarria dell’imperfezione, perché è circondata da fiumi tranne che per un tratto, perché “c’è tutto, anzi quasi”, perché nelle classifiche (…oh, questa manìa delle classifiche…) è sempre messa benino, ma non è mai in cima. C’è sempre qualcosa da finire, ma intanto, questa cosa (che sia un parco, un palazzo, una pista ciclabile) è incominciata.
Insomma, non è il massimo, ma ci vivrei. Ci vivo, a dire il vero, da sempre e quando la vita per un decennio mi ha portato un po’ più in là ho percepito che il concetto di “lontano” si declina in mille sfumature che vanno ben oltre la “distanza”.
Parte in Vespa il mio tour per Pontedera, omaggio obbligato per i lavoratori e le lavoratrici che in Piaggio hanno per anni avvitato bulloni, schiacciato presse, assemblato pezzi, per dare all’Italia il ronzìo delle due ruote più bello dal dopoguerra e dal boom economico in poi. E’ fatta anche di suoni, questa città, di rumori che la identificano, come la sirena della fabbrica che la mattina dà l’avvio alla giornata lavorativa e che da anni, con la ritualità di un campanile laico, chiama la comunità a raccolta. Una comunità che nel tempo non si è fatta meno fedele, ma di certo meno numerosa. Dei dodicimila addetti che fino agli anni ‘ottanta vestivano la tuta blu, poco più di tremila portano avanti ora il progetto geniale nato in quest’alveare di idee che riempie le strade del mondo con la Vespa, con l’Ape, e che per brevissimo tratto ha tentato davvero di sfidare il cielo con i velivoli a motore. Linea sinuosa, ruota bassa, appeal italiano, per le due ruote che continuano ad affascinare il mondo! La mia Vespa esce di fabbrica e incontra subito il bello: la biblioteca comunale (libri, luce, spazio) che ridà vita ad un’ala di stabilimento non più in funzione. “Archeologia industriale”, si è detto, “riuso di aree produttive dismesse”. Entro e mi si affaccia un nuovo titolo alla mente: “ragazzi che studiano dove i nonni progettavano il futuro dei nipoti”. Solo il tempo divide le competenze dei vecchi dalle conoscenze in crescita dei loro virgulti: là dove c’era un pressa, oggi c’è un tablet, ma soprattutto c’è ancora una città, che è cresciuta –anche- inventandosi una linea di continuità tra generazioni. Spazi vecchi resi nuovi, nomi antichi: come quello di questa nuova biblioteca, “Giovanni Gronchi”, già presidente della Repubblica, pontederese. Finalmente in città gli abbiamo dato qualcosa in più di uno spazio erboso dove riposare in pace.
Fabbrica, cultura, museo: secondo la direzione ovest-est che ha preso la mia Vespa or ora uscita dal suo luogo di produzione, superata la biblioteca, si infittiscono gli accenti che ascolto in questa strada. A sinistra i ricercatori del Polo tecnologico Sant’Anna lavorano ad arti bionici, a strumenti medicali computerizzati, a dare un cuore alla robotica che qui da anni è di casa. A destra, il Museo che ospita la storia moderna di un Paese percorso in lungo e largo sulle due ruote. Se Gregory Peck e Audrey Hepburn passassero oggi da qui, non saprebbero quale scooter scegliere –tra le centinaia di modelli storici conservati- per fare il giro della città. E magari, anziché cercare Trinità dei Monti o Piazza di Spagna….
…Sì, potrebbero affiancarmi nel mio viaggio, un po’ centrifugo direi, che per ora lambisce la città e ancora non la attraversa. E allora via, verso la periferia (non è, del resto, Pontedera stessa, una grande periferia?), verso la pianura che porta in città vento di mare. Qui le pale eoliche trasformano la forza della natura e la rendono riutilizzabile, modificano l’energia cinetica in meccanica e poi in elettrica, modificano il paesaggio e svettano come nuovi punti cardinali. Le vedo, rientrando a casa, da chilometri di distanza, stelle polari di una nuova geometria dello spazio.
Prosegue il mio viaggio per la città riavvicinandomi alle case. In bicicletta, questa volta, perché sono queste le uniche due ruote che possiedo (la Vespa è il sogno), naturali propagazioni dei miei movimenti. Mi concedo la lunga passeggiata lungo l’argine del fiume che ci dà il nome, l’Era, un’oasi tra campi e acqua dove non arriva il rumore delle auto né l’afa piatta dell’estate. E poi l’argine dell’Arno, attraverso le piste ciclabili più centrali troppo spesso interrotte dall’asfalto; giro intorno ad un laghetto artificiale, ampio quanto basta a formare un lungo periplo per podisti. Lì si riposano le anatre tuffatrici nel loro percorso migratorio, fanno il nido le folaghe, si infrattano nel canneto fitto i conigli selvatici mentre la tartaruga dalle guance rosse incede indisturbata, aliena a questo habitat. Da lì i nostri avi hanno estratto terra, hanno impastato creta, hanno dato forma ai mattoni, cotti poi nelle fornaci ora dismesse che danno nome alla zona, che hanno dato pane alla gente. Anche dalle pianure puoi vedere d’estate le stelle cadenti o l’eclissi parziale di luna, se trovi un luogo come questo a due passi dal centro, dove però, calato il sole, si fa buio fitto…
Pedalo fino al punto di fusione dei due fiumi, dove l’Era continua la sua strada verso il mare entrando nell’alveo dell’Arno dall’ampia portata. Lì c’è un battello che ci aspetta, “Andrea, il battello fluviale”, il mezzo di trasporto (a fini turistici e didattici) che ha messo pace tra l’Arno e Pontedera, dopo oltre cinquant’anni di malcelata insofferenza e estraneità. Fino a tutto il secondo dopoguerra le rive del fiume erano spiagge e refrigerio per le estati povere dei pontederesi; per fare il bagno bastava un tuffo mentre un servizio navetta assicurava la traversata sicura a chi volesse giungere all’altra riva. Poi il fiume divenne ricettacolo di rifiuti, di scarichi industriali, via veloce allo smaltimento dei veleni. Smise di respirare, limitandosi all’esalazione di intrugli conciari e di carcasse di pesci morti. Ci limitammo a tapparci il naso in fretta e a cercare nuovi lidi, mentre più lentamente si installarono depuratori industriali e si promossero “politiche ecologiche”. Diversi decenni ci sono voluti perché il fiume tornasse ad ossigenarsi; le acque torbide e maleodoranti a poco a poco si sono ripopolate, ma di questa lenta rinascita avevamo fino ad oggi solo rari testimoni: qualche pescatore incallito e i ragazzi della squadra dei canottieri, sentinelle costanti dell’ennesima rinascita dell’Arno. E dopo che il battello Andrea ci ha trasportato controcorrente sul nastro d’acqua su cui “si specchia il firmamento” (azzardata definizione di una ballata preindustriale), vediamo rientrando in città un altro totem postmoderno che segna lo skyline pontederese: le cateratte che in caso di piena, circostanza frequente, convogliano le acque nel canale scolmatore, alleggerendo la portata dell’Arno e scongiurando l’alluvione su Pisa. Il 4 novembre 1966 è una data che qui ricordano bene, tra un gesto scaramantico e una foto d’epoca salvata dalle acque. Abbiamo avuto anche noi i nostri angeli del fango e alle prime piogge d’autunno molti tra loro, che ormai hanno visto tanta acqua scorrere sotto i ponti, misurano con occhio esperto (mani incrociate dietro la schiena) l’innalzarsi del livello del fiume, meglio di qualsiasi linea idrometrica.
E finalmente entro nel cuore della mia città. Entro in centro a piedi e percorro quelle direttrici che hanno fatto di questa città un “punto nodale”. Arrivano dai paesi vicini tutte le mattine pullman fitti di studenti di ogni età; qua si arriva per ricorrere alle cure ospedaliere, per gli acquisti, per le banche, per gli uffici. Mi accorgo di essere nel centro di una città “di servizi”, ma sono i volti e le voci che mi si imprimono negli occhi e mi chiedono si parli un po’ anche di loro.
E allora il mio tour imperfetto si fa corale e ogni persona che incontro si associa all’ultimo tratto del mio percorso. Con i pontederesi più vecchi percorro a piedi la spina dorsale cittadina, il Corso centrale che indica Firenze con la sua propaggine di est e a ovest traccia una linea diritta diritta verso Pisa. Qui una volta arrivava dal capoluogo di provincia un tram (la “Cammilla”: anche ai mezzi, avete visto, diamo un nome) e con esso (con lei!) le notizie, le merci e tutto ciò che all’inizio del Novecento entrava a Pontedera. Con noi sul corso si unisce il mondo del commercio, perché Pontedera è uscio e bottega, è casa e negozio. Il venerdì è giorno di mercato e mi chiedo come facciano i turisti a saperlo, ché non mancano mai, loro che che si riempiono gli occhi di bellezza sui colli toscani e le borse della spesa a Pontedera.
Il gruppo si infittisce al proseguire della nostra passeggiata e si colora delle etnie che qui hanno messo radici (il kebab che segue a ruota un piatto di zuppa toscana non sarà letizia per il fegato, ma non lontano si produce un rosso che, alla bisogna, facilita il transito e rallegra i pensieri). Piano piano si snoda un girotondo intorno a questo piccolo mondo di provincia, nella piazza dove puntiamo il compasso del nostro orgoglio artistico. Tutti intorno ad Andrea! quello “vero”, però, che ha ispirato il nome del battello fluviale e se ne sta di bronzo al centro della piazza con in mano un fascio di fogli, regolo e scalpello, i suoi attrezzi del mestiere. Andrea da Pontedera (astenersi dal chiamarlo “Andrea Pisano”), orafo e scultore tra Trecento e Quattrocento, ha lasciato a Firenze i rilievi in bronzo del Battistero, ha dato una mano a Giotto sul Campanile, ha lasciato a Pisa altri due o tre lavoretti niente male, ha messo la firma sul Duomo di Orvieto e dato, infine, a Pontedera un altro piccolo motivo di vanto: i propri natali. Forse le ha strappato anche una promessa, quella di coltivare, tra Vespe e negozi, un po’ di amore per l’arte. Così chiudo il tour, imperfetto ed eccentrico, tra la folla di studenti che all’uscita da scuola passano davanti a centro metri lineari d’estro moderno d’autore, il muro allegro di mosaico che Enrico Baj ha lasciato a Pontedera a suggello della propria carriera artistica e che condensa una serie di esperienze espressive del Novecento. Fatelo voi un muro che unisce, se vi riesce…
Torno verso casa. Zona semi centrale, né centro né periferia. Lo avevo detto: bizzarria dell’imperfezione e viaggio imperfetto. Attraverso il ponte, schiena d’asino che trema un po’ al passaggio dei mezzi più pesanti. Lo aveva fatto costruire, dicono, Napoleone, in quei suoi pochi anni di onnipotenza locale. Quando la guerra lo mise giù, fu ricostruito tale e quale, per dare ai pontederesi la certezza, o l’illusione, di camminare su orme note e passi sicuri, tra due rive che si fronteggiano ma non si affrontano mai, se non per gioco. Domattina la mia città si sveglierà in un fiato di nebbia, nell’aroma di una torrefazione non più in città ma non lontana, con la processione dei pullman di studenti e con qualcuno di passaggio che si fermerà e ripartirà dicendo: “Pontedera. Non è bella, ma ci vivrei”.
Lucia Stefanini
Rimini, un caldo sabato di metà Luglio. La statale adriatica è un lungo serpente di auto roventi, incolonnate. Direzione: i sognati lidi della riviera. Arturo, Giacomo, Lele, tutti i bagnini fanno a gara ad accogliere i turisti d’Europa, nel pacchetto lettino, ombrellone, palestra con idromassaggio, aperitivo, partita da beach tennis, bocce, pallavolo, zumba in spiaggia, yoga all’alba, serata in discoteca. Rimini è tutto questo, si pensa.
Ma, non solo.
Ore 9.00: weekend, relax. Oggi niente mare, niente caos, niente turismo di massa. Mi sveglio nella mia casa di Santarcangelo di Romagna, un piccolo borgo medievale nell’entroterra a circa 10 Km dal capoluogo riminese e ho solo voglia di aria buona, di profumi, di sapori veri. Bici pronte ed eccoci che io ed Emma pedaliamo lungo la pista ciclabile che costeggia la via Santarcangiolese, dirette verso il centro storico. Poco prima di piazza Ganganelli, girando lo sguardo a sinistra, la Rocca malatestiana spunta dall’alto maestosa rievocando antiche battaglie, e al di sotto della passeggiata panoramica, i bambini giocano in un verde parco, a pochi centimetri dalla storia.
Seguendo il ritmo lento ma vivace che accompagna questa cittadina, pedaliamo verso il mercato agricolo, un luogo dove bontà si unisce a qualità e tradizione, dove trasudano odori di pomodori rossi, di peperoni, zucchine, raccolti con le mani di chi le ha piantati. Tutto locale. Il km zero per eccellenza. Compro dei fagiolini. Li cuocerò stasera per cena assieme al galletto, ruspante. Cotti a vapore e conditi con un filo d’olio EVO preso al frantoio qualche giorno prima. Non c’è bisogno di altro per sentire il sapore della qualità. La piadina appena fatta renderà il suo gusto tipico romagnolo.
Ore 13.00: “Mamma ho fame!” Poco distante dal mercato agricolo, c’è un luogo, al di fuori dai posti turistici, in cui le zdore di una volta cucinano come se fossero nella cucina della loro casa, fuori un cartello “Da Luciana e Mara”, dentro le tagliatelle al ragù tra le più buone. E oltre a ciò strozzapreti pasticciati, ravioli, piadine e cassoni. Tutto hand-made. Mangi lì o take away. Quando varchi la soglia, si affaccia dalla cucina la signora col grembiule bianco e la fronte sudata ad accoglierti con il sorriso della Romagna, quello che ti ispira fiducia. “Due bei piatti di tagliatelle al ragù, grazie.” Slurp. Finiti. Pappati.
Dopo il succulento pranzo, porto Emma a fare una passeggiata digestiva nei vicoli del centro storico. Lei vuole giocare a nascondino e non è difficile farlo attraverso gli angoli e le salite che percorrono il borgo fino al celebre campanone. Ogni volta che la scopro le faccio notare un particolare, e le racconto che tanti anni fa, i ciottoli della scalinata che ora calpesta con le sue scarpette, erano un colle, colle Giove, su cui è nata la cittadina medievale e la strada su cui cammina erano contrade percorse sui cavalli da signorotti con gli stivali; la Rocca che vede era tanti anni fa era invece il luogo di protezione della città, da cui poter avvistare i nemici: “Ecco perché le rocche nascono in alto, su antichi colli.” E divertendosi impara un po’ di storia, di tradizione popolare. Contrada dei Fabbri, contrada dei Nobili, anche i nomi riportano al passato e sono silenziose di traffico, ma rumorose di vita. Quasi ad accogliere chi passa di lì, le signore si siedono fuori le proprie case colorate dalle sfumature del tempo passato. Capita di vederle raccogliere il bucato dai balconcini fatti di mattoni e passare ore a guadare fuori. Tutt’ora te le immagini nelle loro case preparare la sfoglia con 12 uova, la piadina con lo strutto, il ragù nei pentoloni, le conserve da mettere in cantina, le tagliatelle da gustare in compagnia di allegri amici, tavolate chiassose e cadenzate da stornelli romagnoli di una volta. E poi, il sorriso, che renderà più buono ciò che è già autentico, ciò che è fatto con le mani della terra. E’ proprio vero che le cose semplici e autentiche vivono attraverso i secoli.
I grembiuli romagnoli macchiati di sugo, i canovacci, le tovaglie imbandite a festa rivivono ancor oggi nell’antica stamperia artigiana Marchi, dove, dal 1600, si stampa a ruggine la tela con gli stessi colori e metodi di un tempo mantenendo vivo il patrimonio dell’arte popolare romagnola; la stiratura finale viene ancor oggi data dal mangano a ruota, funzionante dal 1600 e l’unico per dimensioni esistente al mondo. Una bottega che è insieme museo, fabbrica e negozio. Anche oggi Emma ha imparato qualcosa di nuovo, di vero, toccando con mani la storia.
Scendiamo lungo le mura che costeggiano la rocca e ci fermiamo nel parco a rilassarci un po’. Si respira aria buona qui, aria delle colline verdeggianti resa frizzante dalla brezza del mare, non troppo distante. Le nostre bici ci attendono, loro sono già stanche ma prima di tornare a casa voglio far scoprire ad Emma un posto nuovo, Teatro Condomini. Sembra solo un teatro, in realtà è un piccolo bistrot-enoteca ricavato all’interno di una grotta rivisitata da un architetto, in cui se vuoi, puoi mangiare circondato da libri e oggetti d’arte, o passare anche tutta la serata con un buon libro. Accompagnato da un buon bicchiere di vino. All’interno un piccolo angolo di cultura ed enogastronomia locale. Peraltro i prodotti trattati sono a Km zero. Il menù? Redatto su un foglio di un quotidiano. “Fico!” mi direbbe (se fosse abbastanza grande).
Ore 16.00: riprendiamo le nostre bici e torniamo indietro lungo la ciclabile, ci fermiamo al punto distribuzione di acqua dove riempire gratuitamente una bottiglia di acqua liscia o gasata, direttamente dalla fonte. Siamo a casa. Ma gli occhi curiosi di Emma non sono ancora stanchi. E allora, qualche km più avanti, percorrendo la via Santarcangiolese, oltre il paese di Torriana, ci dirigiamo verso un minuscolo borgo incentrato quasi esclusivamente su un castello, Montebello. Quasi un luogo di fiaba, arrivarci è una strettoia di curve in salita che sembra portare sempre più in alto. “Guarda sotto!” Una splendida vallata verde. Altezza 436 metri per l’esattezza. Un luogo dove tutto sembra ritrovare quiete. All’imbrunire il castello si fa più misterioso, magico, proprio come la leggenda che c’è dietro, la leggenda di Azzurrina. La racconto ad Emma, sembra abbia ancora voglia di fantasticare: “Nella fortezza che vedi molti molti anni fa nacque una bimba come te, che aveva gli occhi color cielo e i capelli chiari, quasi bianchi da doverli tingere per non sembrare troppo diversa dagli altri bambini. Ma per una strana magia i capelli un giorno divennero dai riflessi azzurrini”. Era il 21 giugno di quel lontano anno quando, nel nevaio della vecchia Fortezza, la bimba scomparve e non venne mai più ritrovata. E si narra che allo scadere del solstizio estivo con un suono, un’apparizione, Azzurrina si faccia ancora sentire, suscitando la curiosità di adulti e bambini che vengono da ogni parte del mondo per far parte per un giorno di questo mondo fiabesco. Leggenda o realtà? Chissà. Io ed Emma visitiamo il castello e le stanze dove si dice rievochi Azzurrina. Magia o finzione, ci sembra comunque di tornare in un’atmosfera del passato, e riviverlo sulla nostra pelle. Circondati da questa aurea di magia torniamo verso casa. Ci aspetta un buon galletto da mangiare, fagiolini dell’orto e piadina romagnola.
Ore 19.00: dietro nuvole tinte d’arancio, giungiamo alla fine di un pomeriggio d’estate. Per un giorno siamo fuggite da spiaggia e secchielli per rifugiarci in un’atmosfera genuina, fatta di cose semplici, di luoghi storici, artigianali, naturali. Nel 2010 Santarcangelo entra a far parte delle 70 piccole città del buon vivere in Italia, città Slow, la prima del comune riminese. Anche questo è Romagna, non solo mare e movida, ma anche vivere slow. Meglio di così.
Rossana Cancellara
Montale, my home
Ero troppo piccola la prima volta che ho messo piede nel paese in cui abito, e nonostante il desiderio di ricordare l’impressione che mi avesse fatto, non riesco proprio a tornare a quel momento di ben vent’anni fa.
Fin da bambina ho sempre sofferto la mancanza di un vicinato visto che la mia abitazione si trova in una frazione del comune piuttosto campagnola, intorno solo un fiume che scorre, alberi e prati. Ma questo, pensandoci bene, mi ha anche permesso di avere il silenzio di cui non si può godere in città o nei centri e il grande spazio che circonda la casa è stato spesso teatro di compleanni festeggiati senza limiti di chiasso. L’unico rumore più forte che si può sentire qua a Fognano è il verso dei cervi a Settembre che si abbeverano sulle rive dell’Agna.
All’età di undici o dodici anni c’è stato un cambiamento sostanziale nella mia vita: con l’inizio delle scuole medie ho dovuto iniziare a prendere l’autobus per scendere dalla collina e recarmi in paese. La fermata non è molto comoda, c’è da camminare un po’, e quando l’autobus sostava per farmi salire spesso e volentieri era già pieno dei ragazzi di Tobbiana, altra frazione di Montale poco sopra, più verso la montagna.
Conosco a memoria Tobbiana e le sue curve a gomito, ho frequentato lassù tutti gli anni di scuola materna immersa nel verde e gli ultimi tre anni di scuola elementare, oltretutto la mia migliore amica a quel tempo abitava in una bella casa colonica ristrutturata dalle cui finestre si godeva di un panorama mozzafiato su tutto il resto del paese.
Una volta scesi, noi ragazzi conoscevamo tutti la scorciatoia per arrivare a scuola che passa dietro la pizzeria Barbara e che col tempo era diventata covo di fumatori in incognito. La stradina a malapena asfaltata portava davanti alla storica cartoleria della Dany sempre presa d’assalto soprattutto per il reparto “chiccheria” che aveva all’interno e che tutti, tranne le mamme, amavano molto. Subito accanto alle scuole c’è il campetto da basket. Da un buco nella rete si poteva fuggire nell’ora di ricreazione e fare due tiri a canestro, se mai qualcuno dei bidelli ti avesse beccato però sarebbero stati guai seri. Stessa cosa per le scale antincendio: erano le più prese di mira da coppiette e falsi spacciatori che ti vendevano l’erba del giardino tritata.
Risale sempre a quel periodo un buffo episodio che ho vissuto in compagnia di un’amica un po’ pazza. Avevamo bisogno di un libro e decidemmo di recarci a Montale per prenderlo in prestito, ma tutti sanno che prima la biblioteca si trovava nascosta in zona Ippolito Nievo, vicino all’estetista Vanity, in mezzo alle case popolari con appartamenti tutti uguali di mattoni rossi e persiane bianche e non ha sempre avuto come location la bellissima Villa Smilea (facilmente riconoscibile perché sembra un castello medioevale). Quel giorno, io e la mia compagna di viaggio, scendemmo dall’autobus in piazza di sopra, attraversammo lo spartitraffico mentre tutti i semafori erano rossi, passammo davanti al supermercato Votino e girando a destra entrammo nella gelateria Hula Hoop. A quel tempo non era ancora arredata in stile americano e non proponeva gli yogurt nel suo menù, ma le crepes alla Nutella sono sempre state una specialità. Invece di percorrere a piedi la strada principale poi, optai per fare un giro da Animal House (adesso sostituito da un’ottima pizzeria chiamata La Fata Cicciona) per vedere i furetti e procedendo dritto ci saremmo trovate davanti alle Poste. Era una buona strada, non ci passavano molte macchine a differenza di quella principale e non si rischiava di essere schiacciati da chi parcheggiava in doppia fila per andare dal fioraio o alla bottega della carta, ma non ci si trovava neanche nel mezzo a frotte scatenate di bambini che uscivano dalle scuole elementari o dall’asilo comunale di fronte ai giardinetti di via Minzoni. L’unica pecca era il Circolo. Adesso è stato adibito anche a pizzeria molto più di quanto lo era prima e credo che ci sia una spietata concorrenza visto che è molto vicino alla nuova pizzeria a taglio, ma c’è una notevole differenza tra i due: da una parte giovani in motorino e tavolini “all’american dinner” e dall’altra i soliti vecchietti che cercano compagnia per giocare a carte o guardare le partite in tv. Dico “pecca” perché di giorno esattamente come di sera quando l’unica stanza libera si trasformava in una piccola discoteca per ragazzini, i suddetti vecchietti urlavano e tiravano parole su argomenti per noi ben poco interessanti. Ma d’altronde si sa come sono fatti i piccoli paesi, ci si conosce tutti, ci si sopporta…
Insomma, io e la mia amica eravamo alle Poste e prendemmo la scorciatoia per non dover passare in mezzo alle auto che sfrecciano. Attraversammo la strada delle scuole, passammo davanti al ristorante Tobago, salimmo verso i giardinetti vicino alla fonte del bagno dove l’acqua puzzava di zolfo e ci ritrovammo al supermercato Colzi. Una grossa risata riempì l’aria quando capimmo di aver sbagliato strada, non era certo la via giusta per arrivare alla biblioteca! Perdersi tra le strade del proprio paese non è da tutti! O forse eravamo solo un po’ sovrappensiero. Con un po’ di logica e di senso di orientamento ci dirigemmo verso la Badia, una piccola chiesa molto suggestiva che spesso viene usata per matrimoni o cerimonie in genere, e riuscimmo a trovare il tanto agognato libro ma ormai era tardi e l’autobus per tornare a casa stava per passare quindi non potemmo far altro che tornare alla fermata più vicina e risalire verso la collina.
Una cosa che amo molto del mio paese sono i punti panoramici: il Belvedere è uno di questi e per arrivarci si può passare sia dalla piazza principale che da alcune straducole secondarie, così come per Montale Alto. È il punto per eccellenza dove andare a vedere i fuochi d’artificio la notte del patrono in estate e dove sicuramente puoi trovare qualche centimetro di neve anche se in paese ne ha fatta solo una spolverata. La strada per arrivarci è tutta in salita, ma ne vale la pena e ne valeva la pena mentre si andava in due sul motorino col vento in faccia e la targa coperta per non farsi segnalare. Per scendere invece si sceglieva sempre la strada più facile e anche quella asfaltata che portava alla casa di Brio poco prima del parco dell’Aringhese. Quel parco è pieno di giochi per bambini, ma negli ultimi tempi è lasciato a se stesso e questo mi dispiace. Ricordo quando era teatro di concerti di artisti famosi e non, di feste in primavera, o quando era solo un parco in estate con l’erba tagliata e il laghetto ben tenuto dove potevi andare a prendere il sole sulla collinetta o a cercare l’ombra mentre guardavi le tartarughe nuotare.
Se ci trovavamo sotto i portici delle scuole tagliavamo per le succursali passando attraverso la strada sterrata sempre piena d’erba e di cacca di cani a passeggio, costeggiavamo la chiesa, si passava davanti al cimitero e si prendeva la stradina stretta a senso unico che portava dritti davanti al cancello del parco.
Adesso i tempi sono cambiati e pur avendo soltanto ventitre anni da compiere mi sento vecchia e commossa a parlare di come era il mio paese e di cosa ho vissuto, di quali fossero i miei punti di riferimento, di come molte cose siano sparite o abbiano subito un cambiamento repentino.
Lo scorso anno io e la mia famiglia abbiamo venduto la roulotte che avevamo da 15 anni in un campeggio a Livorno e che aveva creato per me delle seconde radici da amare e a cui aggrapparmi. Cosa c’entra? Ogni volta, a fine stagione, appena oltrepassato il cartello con su scritto che Montale iniziava da li, aprivo il finestrino e uscivo con la testa fuori. Prendevo tutto il vento, i capelli si appiccicavano al viso, vedevo scorrere le case e i negozi da me ben noti che per tre mesi mi erano mancati e respiravo forte l’aria. L’aria di casa. Anche se un giorno dovrò andarmene, se la vita mi porterà verso altre scelte e diverse destinazioni, Montale per me sarà sempre “casa”.
Martina Buracci
C’era un noce
In ritardo! e il volto di mio zio agli arrivi è più contratto del solito. – Gli aerei come i treni, a quanto pare! – si lamenta con puntualità mentre afferra la valigia. – Il funerale è alle quattro!- Mi dice di getto salendo in macchina. Sono già in nero, anzi sono sempre in nero penso, per esigenze di lavoro, si dice così. Ho portato con me il necessario, e pensato poco a tutto, ho in mente solo lei. La mia piccola nonna, novantacinque anni, ha deciso di andarsene in un gennaio freddo e schietto. E io che non so immaginarmela ferma, né morta, la ricreo nella mente mentre se ne va per le sue campagne, alla scoperta di mulini e frantoi.
La deviazione Gioia del Colle –Noci già restituisce l’idea della mia terra, delle mie parti, le mie davvero: pezzi di luoghi precisi che si incastrano, prendono posto dentro come organi di un altro corpo, meno visibile ma pulsante, un corpo fatto di terra mista all’aria e al sangue: il territorio. Più di tutto mi ha sempre fatta sentire a casa la prima grande masseria su una collina, dieci chilometri dopo Gioia del Colle, una specie di vedetta bianca con un grande fienile e le mucche a pascolare nei campi a primavera; io e mia sorella da bambine ci sfidavamo a contarle, nei minuti in cui passavamo di qui in auto, con mamma e papà. In questo punto, ogni volta lo sguardo si libera, come l’aria che incontenibile si infila dal finestrino aperto appena, ed è riconoscibile: sono a casa, nella mia Murgia.
Ci sono ancora qua e là i segni della nevicata recente: piccole macchie bianche tra zolle ed erba secca, come nuvole che disegnano un altro cielo, umido e terreno. Siamo davvero arrivati una volta individuata l’Abbazia della Madonna della Scala, centro del restauro del libro, un’oasi costruita intorno a una chiesina medievale del XII sec. Poi ancora colline e avvallamenti, chilometri di muretti a secco tra gli ulivi, le lame, gli anfratti nei boschetti di fragni, lecci e noci, le stradine sterrate che dall’asfalto si staccano come affluenti in secca, un invito a risalirli, per andare indietro, ai luoghi propri. Tutta questa ambientazione e i suoi solidi in prospettiva si aprono come le pagine di un libro pop-up, e io mi sento piccola di nuovo, anche perché lo sento in fondo a questo cappotto nero che mi mancano, mia nonna e la mia terra, un’estensione interiore ed esteriore insieme.
L’arrivo in paese è come una sveglia, o una frenata: Noci, sorto semplicemente intorno a un noce, dice la leggenda. La sua quotidianità ridotta in scala mi arriva addosso come un contrasto tra quella cittadina e caotica che mi porto addosso, e questa che mi porto dentro, al ritmo lento dei ricordi.
Noci è a metà strada, da tutto. Qui in mezzo alla terra di Murgia è un baricentro tra acqua e acqua, tra tarantino e barese, tra Ionio e Adriatico: il mare arriva con la mitezza del vento, l’aria perfetta da fiaba la senti anche nei frutti: albicocche, fichi e prugne nere, azaruele tra fine agosto e i primi di settembre, fichi d’india di porpora e ambra tra i muretti e nei campi, mele cotogne in pieno autunno. Qui capisci che non c’è luogo da cui Noci è lontano. Qui poco oltre i quattrocento metri sopra i mari, la terra sa coprirsi di neve sul serio quando è il tempo. Si è nel barese, ma dopo solo sei chilometri, seguendo la vecchia strada verso Martina Franca si è già nel tarantino, dove la valle d’Itria ti spalanca gli occhi, e da certi promontori si vede il Golfo di Taranto.
La chiesetta della Madonna degli Angeli è sempre lì, all’ingresso a sinistra, e la sua forma di trullo è come un saluto. Qualunque ingresso in questo paese ha una chiesa, come una protezione: da Alberobello San Domenico, da Mottola la Madonna della Croce, da Gioia e Putignano la Chiesa dei Cappuccini, dal mare Barsento.
Più avanti alcuni manifesti funebri su un cartellone per affissioni mi riportano al parabrezza, e alla ragione del mio essere qui. -Facciamo un giro? – chiedo, mentre chiudo gli occhi. Mio zio silenzioso si dirige verso il centro. La piazza è stata ristrutturata, diversa nella pavimentazione e nella viabilità che la circonda, sembra in parte alterata da un lifting, ma nei grossi tratti la riconosco, è il mio centro: i piccoli bar, i lecci in ordine perfetto, l’edicola, la fontana, le salumerie, le macellerie, le rivendite di prodotti caseari. Un presepe.
–Alle quattro! – sottolinea mio zio, lasciandomi.
Il feretro nella mercedes superelegante, troppo grande e moderna per una viuzza stretta del centro storico e bianca di calce, dà il via al corteo. Seguo la macchina con mia madre sottobraccio dietro le sue sorelle e i suoi fratelli. Le chianche, basole calcaree sfumate dal bianco al grigio, bagnate e alcune ancora ghiacciate di neve, spalata e deforme ai lati dei vicoli, minano il mio equilibrio, passo dopo passo. La macchina lascia la Chiesa Madre. Qui c’era un noce, e intorno fu costruita la chiesa, un impegno votivo di Filippo D.Angiò alla Vergine dopo essersi salvato da un temporale nei boschi circostanti. Era il 1316. L’auto raggiunge la Chiesetta del Purgatorio, sempre chiusa e utilizzata solo come anticamera per i defunti. La macchina scura, e cupa come un moscone al rallentatore, sembra strisciare e spaccare in due il silenzio freddo del centro storico con il suo ronzio. Il suo movimento sfiora e rivela al mio sguardo le vecchie botteghe di un tempo, quelle che mi hanno vista ragazzina passare tra sarte, pasticcere, falegnami e fabbri, corniciai, calzolai, ricamatrici, fornai. Fioriere su balconi e scale di fresca ristrutturazione danno a residenze antiche la forma di luoghi rivissuti, piccoli alberghi, e locande; evidenziano la bellezza degli scorci, la rarità delle gnostre, la nudità indurita dal tempo di certe pareti. Accendono l’aria di questo luogo piccoli ristoranti, quasi invisibili: gli stessi odori di ieri si prendono i respiri dei passanti, rianimandoli, e contrastano il passaggio del tempo nelle tradizioni mantenute. Oltre porta Barsento siamo fuori dal centro storico.
Nel tragitto a piedi verso il cimitero cerco di ripararmi dal vento con il cappotto, mentre i ricordi saltellano come per farmi festa da un angolo all’altro delle strade. Lasciate le ultime case e avvistati i cipressi si aprono i campi e la vasta distesa in parte innevata delle mie campagne che da quel lato del paese portano alla chiesetta abbaziale di Barsento, datata 591, dalla forma basilicale di età romanica, povera e meravigliosa. Proseguendo si raggiunge il Canale di Pirro, e così il mare. Prima del cimitero, a destra compare la piccola stazione, pochi binari onorati dai mandorli, un merletto a primavera. Una zona di partenza, mi dico (e di arrivo) pensando alla vicinanza – forse casuale, forse no – tra la stazione e il cimitero.
I cento cipressi finiscono, ed è arrivata l’ora: lasciamo nonna, sola, insieme ai fiori. Lungo il viale, fuori dal cimitero le nuvole spesse galoppano sopra i cipressi.
Arriviamo pochi per volta nella casetta di nonna, piccola come lei, e incastonata nel centro storico, con tutta lei dentro quasi solidificata negli oggetti, il prolungamento di tutte le sue azioni quotidiane. C’è ancora in cucina la sua focaccia, l’ultima cosa che ha preparato prima di addormentarsi, mentre fuori nevicava. È quella con gli sponsali, cipolle lunghe e dolcissime soffritte, unite alle olive nere e alle acciughe, e chiuse tra due strati di pasta frolla, quella sfrislent perché si sbriciola, fatta con la farina, l’olio, e il vino bianco di questa terra. A pezzi in un piatto di latta bianco con il bordo blu, messo sulla stufa a riscaldare, rilascia nell’aria l’odore di tutta la sua vita. Con la fronte schiacciata contro la piccola porta a vetri mi incanto guardando i tetti. Mi reggo a questo cibo come a un sorso d’acqua, ne ho bisogno, perché il mio corpo lontano da questa terra ora può sentirne l’eco nei morsi, senza limitarsi. Mastico e lascio andare le voci dei parenti. Oltre i vetri mi accorgo del buio. Fuori è già sera, mentre ricomincia a nevicare.
Antonella Fiore
Torre Guaceto
Sono sul trenino colorato che dalla spiaggia di Pennagrossa porta alla Riserva naturale di Torre Guaceto.
E' una delle poche giornate bellissime di quest'estate capricciosa. Sono già stata alla Riserva, per il cui il piacere con cui salgo sul trenino è maggiore; so che mi aspettano un mare cristallino, splendidi muretti a secco, ulivi centenari, dune. Il tutto immerso in una rigogliosa macchia mediterranea. Purtroppo, scopro subito, mi aspettano anche i miei simili, armati. L'arma letale è il cellulare che l'italiano medio non molla mai, neanche per un istante. Nella splendida riserva di Torre Guaceto non ci sono bar, né chioschi, né lettini, sdraio, ombrelloni. Però ci sono loro, i terribili telefonini, che già sul treno una giuliva signora barese
adopera a tutto spiano "... ciao ...siamo qui; stiamo andando alla riserva... fa caldo....voi dove siete?".
Come potete notare, tutte domande importantissime, senza le cui risposte il mondo non potrebbe andare avanti. Scendo dal trenino e m'incammino verso il mare, posizionandomi sulla scia di due turisti tedeschi. Gli stranieri, si sa, non portano il telefono. C'è un viale largo, pieno di ciottoli bianchi, su cui dardeggia il sole fortissimo di questa giornata di agosto; svoltiamo poi a sinistra, proseguendo per vialetti stretti, incorniciati da piante splendide e selvagge. Ecco la prima caletta. Ma c'è poca sabbia; con il solo supporto del telo da mare la tintarella diventa scomoda. Ma già la seconda cala è perfetta; sabbia fine e bianca; un po' di scogli, tutti, se pur in maniera diversa, pericolosi; scivolosi di muschio marino oppure aguzzi, corrosi dalla salsedine. Di fronte, un mare che ondeggia tra il verde e l'azzurro. Alle spalle, una folta vegetazione fra cui, volendo ci si può perdere per ripararsi dal caldo della controra o semplicemente per stare da soli. Questo posto meraviglioso si trova nel Comune di Carovigno, in provincia di Brindisi; è stato istituito come Riserva Naturale con un decreto del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio del 4 febbraio 2000; parte della Riserva è accessibile a tutti, per cui ci si può sostare, fare il bagno, passeggiare, andare in bicicletta.
L'Area è gestita da un Consorzio formato dai Comuni di Brindisi e Carovigno e dalla Associazione per il WWF for Nature ONLUS, le cui finalità sono la conservazione delle caratteristiche ecologiche, faunistiche, florovegetazionali del territorio, il suo sviluppo, la sua protezione.
Sono trascorse già tre ore; non ho più acqua, è tempo ormai di tornare a casa. Ripercorro con calma la strada della venuta, non ho ancora indossato il vestito: è bello continuare a sentire i raggi caldissimi del sole sulla pelle bagnata, mentre il vento che viene dal mare mi rimanda il profumo di lecci, more, ginestre.
Sono quasi arrivata alla "fermata", c'è già molta gente che aspetta il trenino. Eccolo che arriva, puntualissimo. Salgo, ma non faccio neanche in tempo a sedermi che sento dietro le mie spalle una voce: "si..... stiamo tornando ... è stato bellissimo ... ora mangiamo.... voi dove siete?"
NON CI POSSO CREDERE!
Di nuovo la signora barese. O forse non è lei, ma un'altra come lei, tanto ce ne sono a bizzeffe e tutte con cellulari ultimo modello. Che dite, non sarà il caso di proporre al Consorzio di istituire il divieto "di accesso" ai telefonini in tutta l'area protetta?
Lavinia Vacca
Serrara Fontana
Serrara Fontana è uno dei sei comuni presenti ad Ischia. Situato nella parte alta dell'isola, conta circa 3000 abitanti.
Dal monte Epomeo, oltre 700 metri sul livello del mare, raggiungibile a piedi oppure in groppa ad un cavallo, si può ammirare un panorama mozzafiato ritrovandosi l'intera isola ai propri piedi.
Serrara Fontana è popolata da persone che hanno conservato le proprie origini e tradizioni, grazie agli anziani che trasmettono ai giovani l'amore per il territorio e per l'agricoltura attraverso storie antiche chiamate "cunti". Il parroco del luogo è considerato attualmente una delle figure più sagge. I suoi contributi legati ad uno stile di vita umile ed all'agricoltura, prepara ancora il pane “fatto in casa”. Ricetta che ha oltre un secolo di storia poiché tramandato dai propri genitori, fatta con il grano grezzo. In ultimo quest’uomo è un attento conoscitore e ricercatore di erbe benefiche per l’organismo umano.
In questo luogo, ancora oggi, si pratica l'agricoltura si allevano conigli da fossa e chi ci abita è circondato dal verde e da terreni ricchi di vigneti nei quali si produce del buon vino locale.
I festeggiamenti religiosi ricorrono il 16 luglio in onore della madonna del Carmelo in cui c'è l'usanza di concludere i festeggiamenti con l'incendio del campanile della chiesa, in memoria di un incendio avvenuto nel Medioevo nel quale quella chiesa andò quasi distrutta.
Il piatto tipico di questo posto è sicuramente il coniglio “all'ischitana” con aglio intero, pomodorini, vino locale e poche spezie del posto, ma allo stesso tempo è divenuto famoso anche il pollo cotto sotto la sabbia bollente delle fumarole, sbocco sul mare del comune di Serrara Fontana, in una località chiamata Sant Angelo.
A Serrara Fontana ci sono le antiche terme di Cavascura, dove i romani andavano a rigenerarsi dalle fatiche. Essendo naturali, sono attualmente in uso ed è meta di molti turisti i quali accorrono grazie alle famose capacità salutari.
Un tempo, in questo paesino, le famiglie organizzavano i matrimoni a seconda del ceto sociale di appartenenza, i ragazzi benestanti dovevano prendere in moglie donne benestanti che portavano con sé una buona dote. Ma fortunatamente nel tempo tutto questo è cambiato… anche se gli abitanti del luogo sono ancora molto affezionati ai propri beni e al proprio territorio.
L’indice di longevità è alto. Attualmente ci sono anziani che hanno superato i cento anni d’età.
Lena Iacono
Non sembra lo stesso cielo
È meno azzurro, non trovi? Sì, meno... limpido. Limpido, ecco. Ce l'avevo sulla punta della lingua, ma per qualche arcano motivo non riuscivo a dirlo.
Riesco a immagine la tua insensata considerazione e la risposta, mio caro, è no. No, non sto disimparando l'italiano. Che razza di pregiudizio pensare di perdere sempre qualcosa, partiti per un lungo viaggio!
E poi sono appena tornata! Me ne vado spesso, ma alla fine torno sempre. “La Perla del Tirreno”, così chiamano casa.
Nella città in cui sono nata c'è un molo lungo il quale i pedoni possono passeggiare. Lì puoi incontrare un po' di tutto. Ci sono i pescatori, pazienti, armati di canna ed esche.
Puoi trovare anche i giovani innamorati, che si scambiano le prime effusioni quando il crepuscolo inesorabilmente avanza. E i vecchi, che ancora si abbracciano, che si stringono forte per non rischiare di restare soli. Sì, per alcuni non è molto. Eppure è casa.
Lì, ti dicevo, lì sul molo, proprio alla fine, dove c'è il grande faro rosso, si può vedere il vecchio muraglione che delimita l'ingresso delle navi al porto. Credi di vedere figure intente a prendere l'ultimo sole o a giocare a fare gli equilibristi sugli scogli bianchi. Ti accorgi che sono immobili, fermati nel tempo per viaggiare al di là di esso. Sono statue di Maggini, forse non lo conosci, ma è un mio concittadino. Ed è pure bravo.
Sul grande muro di fronte a te troverai la ragione per cui il mio partire è sempre un tornare a casa, qui, nella mia bella e decaduta città. È una frase di Tobino, psichiatra e scrittore. La scritta è candida come l'accorato auspicio che manifesta:
Viareggio in te son nato in te spero morire
Ed io cosa stavo facendo?
Vinta dalla struggente nostalgia del mio mare, avevo preso il primo treno pronta a tornare a casa, a respirare l'aria limpida sotto il cielo più azzurro che avessi mai visto.
Eppure, ogni volta, la stessa sensazione: l'etere leggero, il cielo meno limpido.
Non c'era mai una nuvola fuori me. Le nuvole, è vero, erano in me.
Credevo che il cielo fosse cambiato, ma ero io quella diversa.
Dopo ogni viaggio portavo con me un po' d'oriente, un po' d'occidente; qualcosina del nord e qualcosina del sud.
Eppure qui c'è tutto, sai?
Guarda questo mare, aperto e sconfinato.
E quelle dolci colline, seguite a gran passi dalle aguzze montagne, con le loro cime spolverate di zucchero a velo.
Talvolta nevica anche da noi... Non puoi immaginare lo spettacolo della spiaggia innevata! Sembra un racconto fantastico, anche se noi, a dir la verità, un po' ci arrabbiamo: siamo gente di mare, abituata a prendere e a lasciare, cosa ne sappiamo di catene, di spazzaneve e di sale contro il ghiaccio?
Quando d'estate i turisti si accalcano sul mare, io fuggo lontano. Non è il mio mare quello di agosto. La passeggiata e i suoi negozi si riempono di curiosi stranieri, sicuramente in cerca di qualche buon affare prima della serata nei locali della darsena o, appena poco più a nord sulla costa, in uno dei locali in della Versilia.
Io, invece, aspetto ottobre, la spiaggia sgombra e deserta. E lì mi siedo, sulla riva del mare, con un taccuino nero tra le mani, intenta ad annotare pensieri ed emozioni che ogni volta questo panorama mi offre senza chiedermi niente in cambio.
Ti diranno che febbraio è il mese del Carnevale, delle baldorie e della bisboccia. Per un mese l'anno i viareggini impazziscono, urlando al mondo la vita. È lo spettacolo della vita.
Se sei in cerca di te stesso, ammira il silenzio impetuoso del mare d'inverno, bagnati della pioggia che ogni tanto scende dal cielo. Ascoltala, ascoltati e vivi.
Di cosa stavo parlando, prima di perdermi nel mare d'inverno e nel suo fascino?
Certo, del suo cielo.
Di questo cielo che ogni volta sfuma diversamente.
Eppure dicono che sia sempre lo stesso.
Sono io che sono sempre diversa.
Serena Barsottelli
Venaria Reale e la sua reggia
Quando si nomina la città di Venaria la prima associazione che viene alla mente è quella con la Reggia. La Reggia di Venaria Reale. Perché sicuramente la cittadina, in provincia di Torino, è conosciuta oramai a livello nazionale per il progetto di recupero e valorizzazione della Residenza Sabauda, che è in atto da qualche anno. Ma il castello non è l’unico fiore all’occhiello, i venariesi conoscono bene il notevole patrimonio storico, artistico e paesaggistico della loro città.
Visitare Venaria significa immergersi tra le strade e i viali di uno degli antichi centri storici meglio conservati, passeggiare nei grandi parchi e giardini, gustare i piatti tipici locali nelle tante osterie e prendere parte alle tante iniziative artistico-culturali organizzate.
Sarà un piccolo residente, Sabian, sette anni, ad accompagnarci in questo viaggio e a raccontarci la sua cittadina. Girovagheremo lungo un percorso che ci porterà a visitare angoli suggestivi, piazze illuminate da fontane colorate e parchi verdi e rigogliosi.
“Partiamo dal Parco Salvo d’Acquisto - suggerisce Sabian – sai, lì vado a giocare a calcio con i miei amici”. La giornata ci permette di godere di un clima caldo e ventilato. Il sole illumina il verde delle rigogliose piante. Persone di tutte le età fanno jogging o passeggiano. Alcune mamme sedute all’ombra del chioschetto si rilassano bevendo un caffè, mentre i loro bambini scorazzano sulle biciclette. Una squadra di adolescenti si allena al campo di basket. E’ davvero rilassante e piacevole trascorrere il pomeriggio in questo parco.
Ma il nostro viaggio deve proseguire, e con Sabian, ci spostiamo verso il centro a prendere un gelato.
Imbocchiamo viale Buridani, il corso principale che ospita, nella giornata di sabato, un ricco mercato rionale e la terza domenica del mese il mercatino dell’antiquariato.
Tappa obbligata ma piacevole è lo sbocco in su Piazza Petitti. Nei mesi estivi, la piazza con la fontana dagli spruzzi di mille colori, diventa il punto di incontro di giovani e anziani, che si organizzano o si rilassano sulle colorate panchine. Bambini di tutte le età sfrecciano sui loro skate board. Anche qui si respira profumo di famiglia. Si, proprio così. Visitando Venaria si rimane positivamente sorpresi dalla possibilità di vivere in tranquillità i diversi aspetti del centro storico e dei suoi dintorni.
La via principale - via Mensa - il cuore dell'attività commerciale venariese, aveva un tempo, il compito di ricongiungere il borgo produttivo con la dimora nobiliare. A ricordare le botteghe artigiane di allora, rimangono oggi negozi e rivendite di prodotti dai nomi sabaudi. Sabian e io gustiamo il nostro gelato al gusto "cioccolato del Re" nell’elegante Piazza dell’Annunziata, un tipico esempio di arte barocca.
Lungo il percorso che costeggia il torrente Ceronda, raggiungiamo la Reggia.
Costruita tra il 1658 e il 1679 su progetto dell’architetto Amedeo di Castellamonte, la Reggia di Venaria è stata una delle principali residenze sabaude in Piemonte. Il complesso della Venaria, oggi patrimonio dell’UNESCO, era un tempo la sede di riferimento per le battute di caccia nel territorio circostante. La Reggia ha successivamente subito numerose modificazioni che l’hanno portata all’aspetto attuale e dal 2007 è aperta al pubblico. Veri capolavori sono la Galleria Grande, la Cappella di Sant'Uberto e la Citroniera.
La Reggia di Venaria ospita periodicamente nelle sue stanze immense, opere provenienti da collezioni di altre residenze sabaude e mostre temporanee di importanza internazionale.
Ci vuole un’intera giornata per visitarla e passeggiare nei fioriti giardini , ma ne vale davvero la pena.
Il giorno successivo lo dedichiamo alla visita del Parco Regionale La Mandria.
Con Sabian ci spostiamo utilizzando il bike sharing, servizio fortemente sostenuto dalla cittadina piemontese. Muoversi in bicicletta è economico, sostenibile e veloce, sostengono sul sito promuovendo l'uso delle piste ciclabili e così raggiungiamo una delle dieci postazioni a disposizione dei residenti e non. Pedaliamo nel vasto territorio de la Mandria. Boschi e prati si alternano a cascine, scuderie e castelli. La natura si unisce alla storia e all'arte. Un tempo la Mandria era riserva di caccia della corte sabauda e luogo di soggiorno del re e della sua corte. Qui trovano il loro habitat specie a rischio di estinzione e particolarmente protette. E vivono liberamente molte specie di animali selvatici. Zolle di terra rialzate ci segnalano il passaggio di famiglie di cinghiali.
Oggi parte del parco è chiusa perché è in atto un intervento di valorizzazione del territorio.
La Mandria è sede del Centro Internazionale del Cavallo.
La città di Venaria offre inoltre un calendario di eventi e di iniziative che negli ultimi anni hanno acquisito una visibilità internazionale. Tra queste spiccano l’MTV DAY, collaudato evento musicale che nel mese di settembre riempie la piazza di giovani e non provenienti da tutto il Piemonte.
Decidiamo con Sabian di intervistare direttamente i venariesi.
Sono orgogliosi della propria città. Davanti alla scuola materna, un gruppo di mamme mi elenca le diverse attività sportive promosse nelle palestre e mi indica la nuova biblioteca accessibile a tutti. Due anziani giovanotti mi chiedono di non dimenticare i corsi dell'Unitre organizzati per la terza età. E poi ci sono i Centri estivi e l'oratorio gestiti dalle Parrocchie a uso dei ragazzi. E ancora la programmazione del Teatro Concordia che spazia dalla prosa al cabaret. Insomma, una serie di servizi che funzionano bene.
I Centri Commerciali si raggiungono facilmente con navette gratuite, ma a Venaria esistono ancora i piccoli negozi per fare la spesa.
E per i tifosi del calcio si respira l'atmosfera unica del Stadio delle Alpi della Juventus, che si trova proprio al confine con la cittadina.
Tutto questo e molto di più, è Venaria. Chiedo a Sabian cosa posso ancora raccontare della sua città. "Perché non venite a visitarla?" mi risponde semplicemente. Già, perché non venite a visitarla?
Stefania Righettoni
Una passeggiata per quel di Gubbio
Quando si vive in una città, un paese, un qualsiasi luogo da tutta la vita, quasi sempre, non gli si da la giusta considerazione che in realtà, meriterebbe.
Spesso sotto i nostri piedi si nascondono storie, persone, epoche così lontane dalla nostra da sembrare irraggiungibili.
È questo il caso della Città di Gubbio, l’antica Ikuvium o Iguvium conosciuta già nell’epoca romana, ma anche da molto prima; all’inizio diventa municipio di Roma poi venne distrutta dai Goti di Totila; rinasce nel medioevo prima come libero Comune poi come Signoria sotto i Montefeltro e i Della Rovere fino a diventare parte dello Stato Pontificio.
Camminare per la città significa passeggiare sopra resti etruschi, romani, medioevali se non ancora più antichi!
Il monumento che colpisce all’arrivo è il Palazzo dei Consoli con la sua immensa Piazza Grande, piazza pensile sorretta da quattro arcate, di epoca medioevale dalla quale si snodavano tutte le attività principali della giornata.
All’interno del Palazzo dei Consoli si trova il reperto probabilmente più antico di tutti, le Tavole Eugubine; sette tavole di datazione compresa tra il 200 a.C. e il 120 a.C. scritte in Umbro, un insieme di caratteri etruschi e latini, per la traduzione delle quali si sono dilettati diversi esperti.
Non si capisce bene da chi e dove sono state scoperte, ma sono citate anche nel famoso “Anna Karenina” di Tolstoj che dice: “Dopo aver letto ancora un po’ il libro sulle tavole Eugubine e risvegliato in se l’interesse verso di queste, Aleksej Aleksandrovic, alle undici andò a dormire…”.
Proseguendo all’interno della Città di Pietra troviamo un intrico di vie, vicoli e scorci magici contornati da decine di botteghe di artigiani, dalla ceramica alla lavorazione della pelle, dal ferro battuto alle drogherie piene di prodotti tipici come tartufo, salumi e la buonissima crescia, una specie di pizza che viene farcita, retaggio del pane dei poveri di una volta; tutto ciò da la sensazione di essere catapultati nel passato.
Sembra di vivere all’epoca di San Francesco, che venne a Gubbio per ammansire il lupo, e Sant’Ubaldo, patrono della città che all’epoca impedì l’invasione di Federico Barbarossa e al quale Dante dedicò una terzina del canto XI della Divina Commedia
“intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende”.
Continuo a camminare per questo intricato dedalo di vie e mi soffermo di fronte la statua del Patrono Ubaldo, con lo sguardo abbraccia tutta la città, mi sento parte del suo amore, gioisco di ciò e per questo esprimo un desiderio infilando il dito mignolo nell’anello di ferro che spunta al basamento.
Le gambe camminano da sole, i piedi non sentono la fatica, torri, chiese e affreschi guidano il corpo alla scoperta della storia.
Se si prende la Funivia, poco dopo aver visitato la Chiesa di San Agostino, si giunge alla Basilica di San Ubaldo dove sono conservati sia il corpo intatto del Santo, sia i tre Ceri (Sant’Ubaldo, San Giorgio e Sant’Antonio) la quale corsa si svolge ogni 15 maggio ed è in onore del Santo Patrono, ma le cui origini si perdono nella notte dei tempi poiché probabilmente era un rito pagano.
Al di fuori, se ci si sporge al parapetto, si rimane senza fiato alla vista del panorama, un misto di storia, perché si vede il Teatro Romano e il Mausoleo Romano e la parte medioevale, e di natura per l’immensità di campi e verde che circonda la città.
Finita la visita e la benedizione alla Basilica si può tornare a valle sia di nuovo con la funivia, sia a piedi percorrendo in discesa dei “stradoni” che il giorno dei ceri vengono invece fatti in salita (di corsa tra l’altro, in circa otto minuti!).
Se si sceglie questa seconda opzione ci si ritrova a visitare il Duomo opera del sec. XIII, il Palazzo Ducale che pare essere stato voluto da Federico da Montefeltro a copia di quello di Urbino, dentro il quale è possibile visitare degli scavi archeologici.
Se si prosegue a sinistra ci si trova affascinati nell’osservare la Botte dei Canonici, un’enorme botte del 1500 costruita senza cerchi metallici, ma sorretta da un intreccio di travi di legno, essa contiene 387 barili (un barile corrisponde a 50 litri); se invece si sceglie la parte a destra si possono visitare i Giardini Pensili; il seguente Parco Ranghiasci e la Chiesa di Santa Croce della Foce, nella quale si possono notare segni templari, in passato nel retro vi era uno “spedale” per pellegrini, ed è proprio qui che dal 3 al 7 marzo 1310 venne svolto uno degli ultimi processi ai Templari.
Un dolce e delicato profumo di ginestra, di rose e di gelsomino pervade l’aria; mi si insinua nelle narici e giù fino alla gola, ansiolitico naturale che unito alla bellezza dell’ambiente circostante, diventa la migliore medicina dell’anima.
Quest’ultima tuttavia nasce ai piedi della Gola del Bottaccione la quale è formata da rocce calcaree stratificate di sedimentazione marina dell’antico mare Tetide sollevatesi
successivamente nei movimenti orogenetici dell’Appennino; questi strati raccontano una storia geologica di oltre 100 milioni di anni.
La particolarità è che queste rocce contengono un valore di iridio (minerale contenuto nei meteoriti) pari a 9 parti per miliardo che corrispondono ad un impatto con un meteorite di circa 5-10 km di diametro; e se qui cadde il meteorite che estinse i dinosauri?
Ma torniamo verso il centro di questa città piena di sorprese e andiamo a fare visita ad un posto che ricorda uno dei periodi più brutti della storia dell’umanità, il Mausoleo dei Quaranta Martiri, realizzato in memoria di queste 40 persone morte il 22 giugno 1944 per mano di nazisti.
Queste 40 persone erano cittadini innocenti e pagarono con la vita un attentato che i Gap partigiani fecero agli ufficiali tedeschi.
I momenti tragici della storia non vanno mai dimenticati affinché non si commettano più errori di tale portata, ma lasciamo le cose tristi ed immergiamoci di nuovo nell’allegria e la pazzia tipica degli eugubini, tanto più che Gubbio è chiamata la Città dei Matti, ma vera e certificata, gli eugubini sono gli unici che dopo un’adeguata iniziazione, possono rilasciare la Patente da Matto.
Come fare? Semplice! Basta farsi battezzare da un eugubino mentre si fanno tre giri intorno la Fontana del Bargello, fatto ciò viene rilasciata la Patente da Matto che è un vero e proprio foglio che certifica l’avvenuta pazzia (ovviamente in senso goliardico).
Se si fa questa passeggiata il 14 maggio, giorno prima dei ceri, è bello tornare in Piazza Grande per ascoltare il suono commovente del Campanone, mosso a mano dai campanari e perché no, subito dopo, andarsi a prendere una bella vaschetta di baccalà sotto gli arconi della piazza; se invece si fa questo giretto l’8 dicembre, dopo il suono del Campanone si assiste all’accensione dell’Albero di Natale più grande del mondo, realizzato con centinaia di luci lungo tutta la facciata del Monte Ingino.
È ovvio che qualunque giro si sceglie, qualunque passeggiata si fa si concluderà sempre con una bella mangiata e una sana bevuta in compagnia, senza strafare, ma divertendosi, consapevoli di aver visto un posto unico nel suo genere.
Cecilia Passeri
Autunno al borgo di Ovada
Oggi la passeggiata sulle colline dietro la stazione di Ovada Nord è ancora più piacevole del solito. Che bella giornata! Che sole! Quante scintille di luce nel cuore! L’aria profuma di erba bagnata di pioggia, il sole tinge tutto d’oro, fino al bosco verde. Le foglie, che formano un tappeto dai colori più caldi e preziosi, ora attutiscono i rumori dei miei passi, ora scricchiolano sotto il mio peso. Le colline ricoperte di vigneti sono color vendemmia. Mi inerpico su per il ripido sentiero che porta al bosco e mi fermo in cima ad ammirare lo stacco tra i grappoli bianchi e quelli color vinaccia che formavano prima una macchia indistinta. Il color autunno mimetizzava due caprioli, che ora mi guardano storto come se avessi invaso la loro proprietà, ma il loro sguardo cattivo è poco credibile essendo frutto di occhi dolci, che tradiscono la loro natura mansueta. Dopo la loro timida fuga, segue a staffetta quella di un leprotto che scende la collina per correre libero nel prato umido. Alla fine del ripido sentiero, il panorama è davvero mozzafiato! Spingendo lo sguardo un po’ più in là, posso quasi toccare con gli occhi la madonnina della chiesa sconsacrata che si staglia sulla cima del monte Tobbio, dove a inizio ottobre si organizza ogni anno una polentata tradizionale, odorosa di funghi. Lo sguardo poi si abbassa sulle colline coperte di viti e la gioia invade gli occhi per poi scivolarmi nel cuore! Scendo giù dalla collina di san Martino tagliando per le vigne e diventando io stessa color vendemmia. Mi preparo a tornare a casa più serena che mai, con la luce negli occhi, l’autunno nel naso, il sapore dolce di fichi e uva in bocca, lo zampettio leggero e veloce degli animali ancora nelle orecchie, l’aria dolce e fresca sulla pelle e l’oro nel cuore.
Virginia Stiber
Rivoluzione e favola – San Sperate Paese e Museo
Quel giorno di giugno del 1968 a San Sperate non sarebbe stato un giorno come tutti gli altri. Laggiù, in un povero villaggio ad una ventina di chilometri da Cagliari, dove nessuna bellezza architettonica e nessuna spiaggia paradisiaca si offrivano al viaggiatore, si sarebbe compiuta la rivoluzione. Una rivoluzione che avrebbe trasformato quel paesino sconosciuto, fatto di case di fango, da borgo anonimo dell’entroterra del Campidano a meta culturale visitata da artisti provenienti da tutto il mondo. Nel 1968, anno di movimenti studenteschi e cambiamenti sociali, il vento della novità sarebbe passato anche per San Sperate, per soffiare deciso sui volti dei suoi abitanti, volti bruciati dal sole ed educati al richiamo mattutino della campagna.
Alla fine della primavera, la festa del Corpus Domini si sarebbe dovuta svolgere come sempre, con balconi e finestre addobbati di lenzuola bianche, lungo il percorso della processione religiosa. Ma la vista della popolazione incredula, che devotamente seguiva la cerimonia, si aprì ad un bianco diverso, quello della calce, con la quale erano stati dipinti i muri di fango delle strette strade di San Sperate. Un bianco amplificato dal sole quasi estivo, un bianco potente, accecante. E lo stupore e la meraviglia della sorpresa, cedettero il passo all’approvazione per quei mattoni crudi dipinti e addobbati a festa con le frasche portate dai ragazzi del paese.
Un giovane artista locale, Pinuccio Sciola, tornato da un soggiorno in Spagna e Francia, con l’aiuto di alcuni amici realizzarono quell’idea, e presto fu chiaro che i muri dipinti di bianco erano terreno fertile su cui poteva concimare la creatività. Così si cominciò a ricoprire la calce, che a sua volta aveva sepolto il fango sotto di sé, di nuove forme e nuove linee: prendevano vita i primi murales, capostipiti di una generazione di colori che continua ancora oggi a quarant’anni di distanza. Un fermento artistico che non si è fermato ai dipinti sui muri, ma ha inondato San Sperate di decine di sculture, installazioni, e performance artistiche di ogni tipo. Il tutto sempre capitanato, ancora oggi, dallo stesso Pinuccio Sciola che ne diede il via.
Chi sta narrando questa storia non ha vissuto quegli anni, ma li ha sempre immaginati, dai racconti di coloro invece che ne sono stati testimoni e protagonisti, come una rivoluzione e una favola. Una rivoluzione, perché si trattò per la comunità di quel piccolo paese sconosciuto, di un vero e proprio stravolgimento radicale. Una rivoluzione popolare, fatta non solo dagli artisti ma dalla gente comune, dai giovani che con entusiasmo parteciparono e contribuirono alla nascita del muralismo, giovani semplici e poveri, ma ricchi di entusiasmo, voglia di novità e cambiamento. Una rivoluzione, ancora, fatta senza colpi di cannone e pistola, ma le cui uniche armi erano il pennello e i colori.
Favola, perché non può apparire diversamente la storia e la trasformazione di San Sperate. Ricordo che, da bambino, la metamorfosi del bruco che diventava farfalla, mi appariva come un fatto straordinario, un avvenimento eccezionale che si poteva trovare, appunto, solo nelle favole, dove tutto è possibile. Ecco dunque, anche San Sperate da bruco è diventato farfalla, e la favola, il sogno immaginato da qualcuno, è diventato realtà.
Mi capita spesso, quando accompagno qualcuno a visitare il paese, oppure quando in bici o a piedi percorro le strette strade del centro, di pensare a quali furono le sensazioni di quelle persone che videro il paese cambiare sotto i loro occhi. La mia generazione può apprezzare oggi il risultato finale di quegli sforzi, ma credo non potrà mai essere in grado di avvertire realmente le emozioni e le passioni che hanno alimentato quel periodo irripetibile.
Negli anni San Sperate si è guadagnato l’attenzione di artisti internazionali, giornalisti, scrittori, musicisti, ed ha meritato pienamente il riconoscimento di Paese Museo col quale è nominato ancora oggi. Un museo a cielo aperto, gratuito e a portata di tutti. Ed è proprio la scritta “San Sperate Paese Museo” che campeggia sui muri all’ingresso del villaggio. Basta forse meno di un paio d’ore per fare un giro del paese, ma è un periodo di tempo ben speso e che difficilmente si dimentica. I murales hanno la loro concentrazione più elevata nel centro storico, che un tempo, prima della recente espansione urbanistica, coincideva con il paese stesso. Rappresentazioni di vita contadina, portoni in stile campidanese, arte concettuale ed astratta, temi politici e vecchie signore che ad una certa distanza appaiono proprio persone in carne ed ossa: le storie che hanno raccontato i murales di San Sperate sono le più varie, così come gli artisti che hanno contribuito alla loro realizzazione. Ogni via del paese nasconde particolari che possono sorprendere, incantare. Ed anzi, anche le strade stesse hanno subito recentemente l’invasione del colore, abbandonando la tristezza del nero dell’asfalto per vestirsi di rosso, blu o verde.
Tappa obbligata di una passeggiata a San Sperate è il giardino-laboratorio delle sculture di Sciola. Colui che ha ideato la “rivoluzione” del paese, è rimasto coerente con l’idea della fruizione dell’arte e della cultura alla libera portata di tutti. Immerso nel profumo degli agrumi, questo giardino difficilmente lascia deluso chi ha la possibilità di visitarlo. La ricerca personale di Sciola sulla pietra, lo ha portato a liberarne la voce, il suono primordiale di cui questa materia è rimasta impressa nei millenni. Sculture sonore, che Sciola accarezza e fa vibrare, tirando fuori la memoria ancestrale impressa nelle rocce. Un suono dolce e musicale, che si contrappone alla durezza caratteristica della pietra, un effetto impossibile da descrivere ma che si può cogliere nella sua bellezza solamente ascoltandolo.
Abbiamo parlato di rivoluzione e favola dunque, e come in tutte le favole che si rispettino, il finale dovrebbe essere “e vissero tutti felici e contenti”. Naturalmente descrivere il paese di San Sperate come l’isola di Utopia o il paese idilliaco dell’Arcadia sarebbe sbagliato. Anche qui vi sono tanti problemi da affrontare: la crescente urbanizzazione, la disoccupazione giovanile e la crisi economica sono tutti ostacoli che rischiano di rovinare la favola del Paese Museo, soprattutto volgendo lo sguardo al futuro. Nonostante tutto questo però, San Sperate rimane una piccola perla da scoprire, ed essere circondati di murales, sculture ed arte, dei buoni frutti della terra e del caldo sole della Sardegna, aiuta sicuramente a vivere più felici e contenti. Per conservare tutto ciò, bisognerà lavorare e preservare quello che la generazione precedente ha lasciato a noi giovani, in quel periodo eccezionale, di rivoluzione e favola.
Marco Dettori
Passeggiate per turisti anticonformisti a Mirafiori
A Torino Mirafiori significa fabbrica, quindi è una bella sfida raccontare questa periferia come una meta turistica, un luogo piacevole da scoprire, superando ogni pregiudizio.
Siamo nella zona Sud del capoluogo piemontese, dove corso Unione Sovietica, un tempo l'antica strada per Stupinigi, conduce a una delle più belle dimore sabaude. "Il magnifico viale che si stende come un ampio nastro tra le fronde degli olmi secolari, guida l'occhio nell'interminabile corsia fino al lontano e bianco sfondo del castello. Quella del viale e del castello di Stupinigi è storia di principesche cavalcate, di soggiorni di re e imperatori, di partite di caccia, di svaghi e di riposi di principi, di romantiche passeggiate di amanti nell'indisturbato silenzio e nell'estasi della natura"(Pietro Abate Daga, Alle porte di Torino, 1926).
Il nostro viaggio parte da via Sarpi, alle spalle di corso Unione. Qui troviamo un grande complesso salesiano in mattoni rossi dal nome altamente simbolico: Agnelli. Nel 1938 la Fiat, accanto ai suoi stabilimenti quasi ultimati, provvede alla costruzione di chiesa, oratorio, teatro, scuole, officine, campi da gioco. Nel '43 si apre la scuola di addestramento professionale per i futuri operai, che negli anni '60 arriva a ospitare più di mille studenti. Mamma Fiat pensa anche ai figli dei dipendenti: le suore di Maria Ausiliatrice danno vita all'oratorio femminile e alle scuole, dal nido alle elementari. Nel mosaico sulla facciata della chiesa (La chiesa di San Giovanni Bosco, inaugurata nel 1941, è opera dell'architetto Giulio Valotti) c'è un particolare curioso: qualcuno intravede Edoardo Agnelli nella figura del Buon Pastore posto in mezzo agli agnellini che brucano nel prato.
Il cinema teatro ospita la stagione di Assemblea Teatro, una delle storiche compagnie torinesi, che con il cartellone "Insolito" e "Domenicamattinateatro" offre a adulti e bambini ottime occasioni di riflessione e divertimento.
Se volete sapere come è cambiato il modo di abitare la città in quasi cent'anni percorrete via Giacomo Dina, e vi apparirà un meraviglioso museo all'aperto che risponderà alle vostre domande. Le villette a due piani che si trovano di fronte all'istituto Agnelli vengono costruite dal 1923, per accogliere le maestranze Fiat. Sono le prime case della zona, oltre alle numerose cascine. Le semplici decorazioni geometriche, i vetri colorati delle scale esterne, i piccoli giardini fioriti che le circondano, conferiscono un aspetto gentile a queste casette, scampate alla selvaggia cementificazione degli anni '60-'70.
Proseguendo lungo via Dina, dopo aver attraversato corso Agnelli, a sinistra s'incontra il complesso di case popolari M2, costruito a partire dal 1926. Il modello scelto è quello di una grande corte chiusa con un contorno di palazzine indipendenti di 3 o 4 piani, abbellite da decorazioni con graffiti a motivi floreali in bicromia. I verdi giardini, che si aprono inaspettati a chi si affaccia sul cortile, fanno pensare a un'oasi naturale nella rumorosa città, ricordando il begijnhof di Amsterdam.
Guardando a destra della via ecco il complesso "Costanzo Ciano" (1939-45), che ci riporta al ventennio fascista. Ritroviamo lo schema a corte di M2, ma ci sono differenze importanti. Spariscono i decori, le facciate sono molto severe: 5 piani, con mattoni a vista e due fasce d'intonaco, in basso e in alto. L'assenza di balconi sulla strada crea un'atmosfera quasi metafisica, che richiama i paesaggi urbani di De Chirico. Il bisogno di case durante la guerra è altissimo così, vista la difficoltà di acquisire nuovi terreni, ci si arrangia riempiendo quel che c'è: un ulteriore edificio spunta in mezzo alla corte occupando gran parte dell'area. Tocchiamo con mano la progressiva decadenza degli spazi comuni nelle case popolari. Compaiono i primi negozi, in una zona che sorge in aperta campagna, ma all'ombra della Fiat, il più grande stabilimento automobilistico d'Europa. Qualcuno ricorda ancora le mucche al pascolo o galline e conigli allevati sui balconi.
Per una sosta ristoratrice consigliamo la "verace" pizzeria Rio, al n. 28 di via Dina, con un'ampia scelta di pizze al padellino e un'ottima farinata.
Proseguendo ecco il complesso Q25, siamo nel 1942 e assistiamo al definitivo abbandono dello schema a corte chiusa. Le distruzioni della guerra e l'inizio della forte immigrazione richiedono un aumento della densità edilizia, per la necessità di nuove case. Quindi sempre 5 piani d'altezza, ma costruzioni più fitte. Due stecche disposte a pettine verranno inserite nel cortile, facciate gialline più dimesse, nessun particolare decorativo.
Poco oltre, a sinistra, il complesso S1 (1947): le case sono parallele, poste di coltello rispetto alla via. Il verde si riduce a qualche albero piantato in mezzo a cortili d'asfalto. Il nostro ecomuseo si chiude simbolicamente con le case che si trovano svoltando a destra in corso Siracusa. Sono le costruzioni degli anni '60 e '70 che caratterizzano gran parte del quartiere. E' il miracolo economico: alla fine degli anni '50 avviene il raddoppio di Mirafiori, dal '51 al '71 la popolazione della zona cresce di 7 volte. Di edilizia privata e convenzionata, per lo più cooperativa, le case sono alte fino a 10 piani, affacciate direttamente sul marciapiede o precedute da un giardinetto o da portici commerciali. Compaiono i garage, sotterranei o nei miseri cortili. La storia dei Comitati spontanei di quartiere racconta quante lotte per ottenere i servizi sociali essenziali ha causato questo modello di città.
Girando a sinistra in via Sanremo si arriva al Palaghiaccio di corso Tazzoli, una struttura di mattoni e vetro costruita per le Olimpiadi del 2006, con una tribuna di 3.000 posti ospita attività amatoriali e campionati di professionisti. Di fronte, lungo corso Tazzoli, a perdita d'occhio, si estende la Fiat Mirafiori. Inaugurata nel 1939, arriva, negli anni '70 a dare lavoro a 50mila persone, una città nella città. Oggi appare isolata nel panorama urbano, silenziosa ed enigmatica del suo futuro. Dove un tempo c'erano tram e biciclette che portavano gli operai al lavoro, poi infiniti parcheggi per auto, ora sorge il Parco Lineare.
Approdiamo alla bella e ampia area pedonale di piazza Bianco, con giardini, panchine e tavoli, giochi per i bambini, un anfiteatro, una fontana, una zona per lo skate board e bei viali. E' il cuore del quartiere, su cui si affaccia una tra le più belle chiese moderne di Torino, Gesù Redentore. Progettata dagli architetti Nicola e Leonardo Mosso nel 1957, imponente nella sua semplice e austera facciata di mattoni protesa verso il cielo, al centro la filiforme scultura bronzea della Trinità. All'interno si ammira la spettacolare volta sfaccettata in cemento armato dove i raggi di luce provenienti dagli abbaini a forma di cristallo piovono sul pavimento di marmo nero.
Proseguendo verso Grugliasco troviamo, in via Rubino 45, la cascina Roccafranca, nata sulle ceneri di un diroccato casale seicentesco, grazie al progetto Urban 2, ora innovativo centro culturale e aggregativo, con un bel cortile molto animato d'estate, una caffetteria, un baby parking, corsi, laboratori, un ecomuseo urbano e Botteghe tematiche sul consumo critico, sulla donna e sul benessere. D'obbligo una sosta alla Piola dell'incontro, dove si mangia bene a prezzi popolari sotto un maestoso gelso.
Di fronte alla cascina sorge la barocca cappella Anselmetti, ridisegnata all'interno dall'artista Massimo Bartolini e sede di laboratori per le scuole. Poco più in là, in corso Tazzoli, si trova un'altra opera nata dal progetto Nuovi Committenti e creata dall'artista parigina Lucy Orta dal nome "Totipotent architecture": è una scultura formata da sinuosi tubolari d'acciaio, che richiama la cellula totipotente, la staminale, l'unità dal potenziale illimitato che presiede alla costruzione dell'organismo.
Questo viaggio ci dice che ogni luogo è magico, se visto con occhi curiosi e capaci di stupore.
Laura Maria Zanlungo
Due gemelli tra la val Rendena e l’Adamello
Sotto di loro un mare di nuvole, l’alba spuntava sopra le cime delle Dolomiti del Brenta, rosa a quell’ora. Erano le cinque del mattino e avevano 14 anni. Il massiccio granitico dell’A-damello fronteggiava quello dolomitico del Brenta. Sono passati quasi quarant’anni e qui davvero poco è cambiato, il rifugio Caré Alto si è solo un po’ ingrandito, il resto come nei ricordi di Beatrice bambina.
C’è ancora la chiesetta, costruita coi tronchi dai prigionieri russi, durante la prima guerra mondiale, e la sua piccola campana. Il ghiacciaio, la morena, le rocce granitiche e quel cielo così spudoratamente limpido sopra le nuvole.
Quella volta erano arrivati la sera prima, per ultimi, Beatrice e il suo gemello, Giorgio. Il resto della comitiva era scattato in avanti quando dal sentiero il rifugio sembra già lì. Avevano fame i due gemelli e, seduti sulle rocce davanti al rifugio, stavano addentando i panini, estratti dello zaino, quando una voce imperiosa alle loro spalle urlò: “No. Prima questo!”
Giorgio si volta con il cipiglio che la sua giovane arroganza gli dipinge sul volto quando qualcuno lo contraddice. Silvio si sta avvicinando con due tazze di brodo fumanti e il ragazzo, voltandosi, sorride nel vedere quel fascio di muscoli sotto una barba brizzolata, sotto una berretta di lana a righe, che offre loro il suo brodo.
“A voi non v’ho mai visto. Da dove venite?” Chiede Silvio.
“Da Genova.” Risponde sicura Beatrice.
“Da Genova fin qui a pè?” Chiede il montanaro tra lo scherno e l’ironico.
“No, vede, mia sorella non ha capito, noi siamo saliti da Borzago, ci veniamo in vacanza.”
“Ah, beh, alora… vo’altre dovete imparare i segreti della montagna, avete del giudizio, voi, no coma chi altre che j’è rivè de corsa, des minüch fa eh, j’ha magnà e adess… sdraiati in branda. Voialtri due s’è rivé piano, come gente che misura le forze... e vegnì dal mar… Alla buon ora, bevè stò breüd! Caldo, va bevuto caldo.”
“A me non piace il brodo.” Tenta di contestare Giorgio.
“Poche storie. Bevi mona, è uno dei segreti della montagna: quando ci si ferma il brodo caldo rimette in forze.” Silvio aspetta che i ragazzini finiscano di bere, riprende le tazze e silenziosamente rientra nel rifugio.
In pochi lo avevano sentito parlare così a lungo. Silvio era un orso solitario, di una forza capace di fare un presentat’arm con un fusto di cannone, percorreva quasi tutti i giorni quel sentiero impervio, per il quale le guide prevedono circa tre ore e mezzo di cammino, in poco meno di un’ora e carico di provviste per rifornire il rifugio. E’ rimasto un personaggio mitico e qualcuno sostiene che il suo fantasma si aggiri tra la morena e il ghiacciaio, nelle notti di luna piena.
Beatrice e Giorgio ogni tanto lo ricordano e raccontano, quest’uomo simbolo, ad amici increduli che vengono a trovarli da Genova o da chissà dove. Vi è in realtà un gran traffico internazionale tra quelle cime che sembrano sempre deserte nelle fotografie in cui appare raramente la presenza umana.
Quel giorno lontano, i due gemelli, bevuto il brodo e mangiati i panini, mancavano ancora alcune ore prima che scendesse la notte, partirono in esplorazione del territorio.
Scenario di follia.
Trincee, camminamenti, sferette di granata. Una guerra guerreggiata a 2500 metri di quota, alcune testimonianze sono ancora lì, dopo cent’anni. Non tutto, molti reperti hanno finalmente trovato una degna collocazione nel Museo della guerra Adamellina, giù in val Rendena, a Spiazzo, dove nei locali della vecchia scuola elementare le grandi sale ospitano una documentazione storica recuperata negli anni.
Al museo, aperto nei periodi di vacanza invernale e tre mesi d’estate, nel pomeriggio, Beatrice e Giorgio ci erano andati, per l’ennesima volta, il giorno prima di risalire al Caré Alto. Come sempre, li ha accolti Frank che della guerra adamellina sa tutto e al museo fa la guida, il ricercatore e l’uscere. La sua figura, giovane, esile, riporta a personaggi d’altri tempi: alto circa un metro e novanta, basettoni che arrivano al mento, pare evocare ufficiali austrungarici piuttosto che ferventi irredentisti dell’inizio del secolo scorso.
E’ lui che ha finalmente illustrato a Beatrice la storia delle portatrici d’assi, ricordate in un mosaico sulla parete di un capitello a Gḯo, proprio all’inizio dei tornanti che dalla val Rendena introduco in val di Borzago dove la strada carrozzabile si inerpica tra i boschi che, quando si aprano e la giornata è buona, spalancano la vista sul ventaglio del massiccio dell’Adamello con la cima Caré Alto e il ghiacciaio, che si stagliano su un cielo color cobalto, mozza fiato.
Beatrice, le portatrici d’assi, le aveva sentite nominare fin da bambina ma faticava a capire. C’erano soldati austriaci e c’erano le donne che lavoravano come muli perché avevano fame e salivano "via per là, in val di Borzago e poi su fino al ghiacciaio”. Davvero era difficile capire da bambina cosa ci andassero a fare delle donne a tremila metri dove già non aveva senso la guerra.
Il fatto è che le donne costavano meno dei muli, 3 corone al giorno e due pagnotte a fine settimana, inoltre le donne si trovavano già sul posto mentre i muli avrebbero dovuto venire da lontano. Quindi le donne furono ingaggiate per trasportare il materiale che servì a costruire le baracche, dove i soldati tentavano di sopravvivere al gelo. Tra il 1915 e il 1918 quasi ogni giorno, a piedi, da Borzago, con qualsiasi tempo, e qui la neve raggiunge anche i quattro metri d’inverno, le donne salivano a rifornire il fronte di tutto il necessario per l’a-gonia di quella sopravvivenza assurda dei militari così splendidamente narrata nella sua drammaticità e dolore anche da Carlo Emilio Gadda nel libro Taccuino di Caporetto - diario di guerra e di prigionia.
Dalle munizioni alle vettovaglie, dalle stufe al legname, tantissimi materiali raggiunsero le vette, poi, a guerra finita, presero la strada del ritorno. La miseria in val Rendena regnò sovrana fino agli Sessanta e le genti del luogo inventarono la figura del recuperatore. Uomini, per lo più questa volta, che andavano verso le cime e si portavano a casa stufe, pale, legname, pezzi di teleferica e tutto quello che aiutava a sbarcare il lunario.
Poi arrivarono i turisti e con loro il benessere, allora dalle cantine e dai solai emersero i reperti bellici e così nacque il museo della Guerra bianca Adamellina, a Spiazzo. Il paese nel ‘15-‘18 non esisteva ancora, diventò Comune nel 1928 accorpando quelle che ora sono le sue frazioni: Mortaso, Fisto, Ches e Borzago. Questi borghi sorgono sparpagliati a distanza dall’antica chiesa, con i suoi affreschi sulla facciata cinquecentesca e i resti, nell’ab-side, di un tempio pagano.
Proprio di fronte alla chiesa, il Museo e la sua raccolta di bottigliette di vetro, smerigliato dal tempo, le migliaia di fotografie e le racchette da neve, i cappottoni di lana e gli stivali di paglia, e slitte e lancia bombe. Un tuffo nella storia, nel delirio della guerra e la forza della montagna, con Frank che spiega paziente.
Beatrice e Giorgio sono venuti a vivere a Borzago da adulti, Genova e il mare sono lontano. Talvolta i gemelli sentono la mancanza dell’orizzonte, dei cieli lunghi che toccano il mare, non come qui dove, raccontano i trentini: “Le montagne reggono il cielo.”
E’ allora che salutano i reciproci figli e consorti e salgono sulle vette arrampicandosi per la valle angusta, guardano il mosaico delle portatrici d’asse, proseguono oltrepassando le antiche ca’ da mont, dove nelle stagioni di mezzo alpeggiavano pecore e mucche, ora trasformate in confortevoli baite, alcune in agritour con camere raffinate e un ristorante dalla cucina tipica e i vini profumati.
Oggi, come quarant’anni prima Beatrice e Giorgio sono stati lì a guardare l’alba sulle cime.
Ora è l’imbrunire, i due gemelli scendono dal rifugio con calma, a piedi, tra i boschi della val di Borzago, col suo torrente sul fondo. Giorgio dice: ”Chissà, se siamo fortunati incontriamo di nuovo l’orso.” Ma questa è un’altra storia.
Susanna Merzek
Roseto degli Abruzzi
“Un rivolo d’aria salubre attraversa questo paese, situato in una posizione strategica dal punto di vista climatico sulle rive dell’Adriatico...tua nonna lo diceva sempre, l’aria di Roseto fa risuscitare i morti!!!”. Così mi racconta mia madre, che per le strade di Roseto degli Abruzzi mi teneva la mano durante i lunghi pomeriggi estivi, lasciandola quando, giunti in prossimità della pineta Savini, correvo verso le altalene per dedicarmi ad uno dei giochi preferiti della mia infanzia. Solo dopo ore di innumerevoli sali e scendi rincasavamo, entrambe esauste, nella nostra casa dal tetto rosso di via Lucania. Una casa circondata da alberi, i nostri e quelli della villa accanto. Le ville di Roseto sono innumerevoli, risalgono all’epoca fascista, periodo in cui il paese non era nient’altro che un villaggio di pescatori, denominato “ Rosburgo”. Ma già a suo tempo i generali fascisti avevano capito che quest’aria di mare aveva del miracoloso. E la collina di Montepagano che si erge alle spalle del borgo appagava la vista e tranquillizzava l’animo. Oggi alcune di queste ville sono state ristrutturate, altre sono abbandonate, altre ancora destinate ad alberghi. Anche la villa accanto alla nostra casa è diventata un hotel. Ebbero solo cura di non abbattere le meravigliose palme che ne occupavano il giardino. Ma la gente continua a venire in vacanza a Roseto, con una caratteristica: chi viene qui una volta, ci ritorna per tutta la vita. Ultimamente la crisi e il carovita ha lasciato dietro di sé, negli anni, alcuni affezionati che hanno dovuto arrendersi all’aumento spropositato dei prezzi in questo fazzoletto d’Abruzzo (dico io, non siamo mica in Versilia!). Ma i Rosetani sono così, testardi e chiusi nella loro lingua di terra, e non hanno ceduto il loro piccolo gioiello al turismo di massa. Che questo sia stato involontario, poco importa. Sono trascorsi venticinque anni da quei pomeriggi soleggiati. L’edilizia si è sviluppata all’estremità nord e sud del paese (considerando che Roseto può solo allungarsi per crescere in dimensioni, a causa della collina di Montepagano che ne blocca l’allargamento); opere di restauro delle strutture pubbliche sono state eseguite in modo più o meno intelligente; gli stabilimenti balneari hanno rinnovato la loro estetica. Ma a parte questo, non sembra essere cambiato molto da queste parti. Roseto è rimasta così, adagiata lungo le rive del suo mare, raccolta nel suo ruolo di località esclusiva per le vacanze estive d’un tempo. Quando il sole si affaccia, sulla linea dell’orizzonte, i marinai rientrano con le loro imbarcazioni per vendere il pesce sulla riva. Rosetani e turisti di passaggio si fermano sul bagnasciuga, accanto alle barche. C’è chi compra, chi sta lì per curiosare, chi si gode l’andirivieni del moto ondoso. La spiaggia di Roseto è larghissima, protetta dall’azione erosiva delle onde da frangiflutti posizionati a poca distanza dalla riva. Gli scogli fanno parte integrante del paesaggio costiero di Roseto. Occupano la scena, distraendo lo sguardo dall’uniforme colore del mare. La collina di Montepagano segna il confine sul lato opposto, con il campanile della chiesa del paesino che si erge sulla sommità. Scogli e collina, collina e scogli. Qui ci si può fermare, ci si può sentire rassicurati. Il sole ora è un po’ più alto. È giovedì mattina, e nelle piazzetta antistante il palazzo comunale vengono montate le bancarelle del mercato. Il paese si riempie di donne, bambini e ragazzine che animano le strade, scambiandosi consigli o pettegolezzi. Se le ragazze hanno in mano i cellulari, oggi, non cambia molto le cose. Esse sono sempre lì, tra chiacchiere e risatine, ammiccando sorrisi maliziosi. Per gli adolescenti, i Phantom e gli SH sono uno status simbol. Li vedi ovunque, questi ragazzi che sfrecciano lungo la via Nazionale, incollati alle selle dei loro scooter. Si fermano al Bar Porrini, nascosto fra il labirinto delle viuzze interne, quasi a ridosso della collina. Il Porrini è da sempre un luogo di aggregazione per i ragazzi di Roseto, qui generazioni di giovani hanno trascorso i pomeriggi dopo scuola a giocare a carte, a biliardo o biliardino. Un sacchetto di patatine, un caffè, qualche sigaretta. Ma il vero nucleo aggregativo è la piazza della stazione. Solo i treni regionali si fermano a Roseto degli Abruzzi. La biglietteria è chiusa da tempo, e la stazione viene sfruttata più come sottopassaggio che per lo scopo originale. La piazza è tagliata in due dalla Nazionale, la metà subito antistante la stazione è utilizzata come fermata degli autobus regionali. L’altra metà, oltre la strada, è il cuore pulsante di Roseto. L’edicola nel mezzo della piazza, una fontana, e qualche panchina qua è là, fanno da struttura portante per l’aggrovigliarsi della rete delle attività sociali della popolazione. Attività che si protraggono lungo i marciapiedi della via Nazionale, in direzione nord e sud rispetto alla piazza. L’attività principale avviene durante il passeggio tardo pomeridiano. Si occhieggiano le vetrine, con interesse apparente, non perdendo di vista il movimento altrui. Lo scopo è localizzare il conoscente o l’amico, salutarlo più o meno calorosamente, talvolta fermarsi per due chiacchiere, che diventeranno oggetto di discussione durante l’incontro successivo. Tale attività viene realizzata con soluzione di continuità durante tutto l’anno, ma durante la stagione estiva la location si sposta sul lungomare. Ah, il meraviglioso lungomare di Roseto! Il marciapiede pedonale che si estende dalla rotonda sud a quella nord è costeggiato da una lunghissima fila di palme, l’orgoglio e il cruccio dei rosetani. Il cruccio perché, come in altre zone d’Italia, alcune di esse sono ridotte a monconi avvizziti. E poco importa se il denaro viene destinato alla parata delle frecce tricolori. Mal comune mezzo gaudio. Lo spettacolo delle frecce è, invece, davvero esclusivo. Qualcosa che può riportare, in un solo pomeriggio, la località balneare all’antico splendore. A lato delle fila di palme, è stata di recente costruita una pista ciclabile. Bisogna riconoscere che questo è stato uno dei più grandi cambiamenti in paese dell’ultimo decennio. Difficile ancora oggi da assorbire nella mentalità rosetana. Lungo la pista sfrecciano indifferentemente biciclette, corridori e … passeggini. Oltre la rotonda sud (detta anche “seconda rotonda”), proseguendo per 500 metri, si arriva al pontile. La sapiente mano di qualche giardiniere ha trasformato gli aiuole in messaggi per i forestieri: “Benvenuti a Roseto”. A due passi c’è il carretto “Mare Fritto” nonché l’intramontabile “Bruno”, che con hamburger e patatine fritte allieta le notti estive. D’inverno il sapiente Bruno si sposta presso la rotonda nord (o “prima rotonda”), in un accogliente locale al chiuso. Oltrepassati le bancarelle delle cibaglie, si può prendere la via del molo. Pedalando per pochi istanti si arriva in fondo, dove giovani ed anziani cercano di tirare su qualche pesce dal mare. Il salto è di pochi metri, e talvolta qualche ragazzo si esibisce in tuffi più o meno acrobatici. Arrivati qui, se ci si gira verso la costa, si può osservare il paese nella sua interezza: i contorni delle case, la riva, il profilo della collina e la fila di palme del lungomare. Arrivati fin qui, avvolti dalla leggera brezza del mare, si può stare tranquilli. Roseto degli Abruzzi sembra rassicurarci, darci la certezza che il tempo può rallentare, e noi abbiamo la possibilità di riflettere e sistemare i tasselli della nostra vita.
Claudia Mattioli
L'Orzo Bruno
Il fatto è che ci vuole sempre un posto in cui riparare.
Chiamatelo porto, chiamatelo nido. Chiamatelo casa o rifugio o come vi pare. Ma, qualcosa, ti serve. Se non ne hai uno ti tocca viaggiare. Guardate la fine che hanno fatto Baudelaire o quello scansafatiche di Chatwin. Avessero avuto una birreria sotto casa, forse, le cose sarebbero andate diversamente.
Forti di questa inoppugnabile verità, negli anni, abbiamo eletto un luogo deputato a raccogliere tutte le nostre ingiurie alla Vita che ci tormenta coi suoi dispetti e i suoi dispotismi. Ma un luogo, pure, in cui festeggiare tutti gli esami dati, le tesi completate e le lauree - alla buonora - raggiunte. Per non parlare poi dei brindisi alle partenze, temporanee o definitive, o di quelli sprecati per gli eventi, come dire... felici.
E, questo luogo, il luogo che abbiamo scelto negli anni, è l'Orzo Bruno.
Incastrato in un vicoletto parallelo alla strada principale, fra l'ampia piazza alberata di Santa Caterina e il piccolo teatro Verdi, il pub raccoglie gente d'ogni sorta e carattere.
Lo gestisce una cooperativa di ragazzi più che trentenni. Una decina d'anni fa, improvvisatisi birraioli e contadini, hanno cominciato a smerciare le loro birre artigianali e i loro succhi di frutta prodotti nelle campagne dei dintorni del pisano.
Ai tavoli dell'Orzo, in una qualunque serata - estiva o invernale - puoi trovarci il compendio della città. C'è la tavolata che discute animatamente della rivoluzione prossima ventura. Sono probabilmente volontari del Chicco di Senape, o di Emergency, o di una qualche altra associazione che, a Pisa, crescono spontaneamente meglio della gramigna. Cambiare il pianeta - si sa - è un'operazione sporca e malvagia a cui tutti i politici cercano indefessamente di opporsi, ben riuscendovi.
Il Lunedì presenziano gli amanti e gli esperti del Go. Pisa è città di nerd, e in quanto tale abbondano scacchisti e goisti di ogni risma e di ogni scacchiera.
All'angolo del book-crossing sfilano lettori d'ogni trama e genere, dai giallisti agli appassionati di fantascienza. Posano e prendono dagli scaffali fumetti, riviste e, ovviamente, libri.
Ma ci sono anche i bevitori di passaggio, quelli che hanno chiesto "conoscete un pub dove andare?" e sono stati spediti qua, che fossero indistintamente fricchettoni impenitenti o aspiranti avvocati.
Ci arrivano stranieri, e ovviamente gli Erasmus. E poi professori e ricercatori universitari, operatori ecologici, impiegati del catasto e delle poste. L'Orzo Bruno accoglie molta gente, indipendentemente dal credo politico o dai gusti sessuali.
L'ambiente ha, certo, una sua precisa e incontestabile opinione e filosofia di vita. Basta guardare il menù. Prodotti locali, a chilometro zero, biologici. Prodotti del GAS, i gruppi di acquisto solidale che si riforniscono dai contadini di una rete nata dopo il G8 di Genova. Prodotti del commercio equo e solidale. Nessun prodotto di multinazionali dubbie. Persino la Coca cola è stata bandita dal locale: che imparasse a rispettare i diritti e la dignità dei lavoratori e dei popoli, prima di venire a vendere all'Orzo Bruno!
In aria, sopra al bancone, sventolano i fogli di carta ingiallita coi piatti disponibili: insalate contadine, formaggi, dolci artigianali e improvvisati. Su uno dei due pilastri del bancone è appeso l'algoritmo (Pisa è città di nerd) per ordinare una birra: specificarne il tipo, se si vuole piccola o grande, da bere dentro o fuori (se si porta fuori occorre - per disposizione comunale - il bicchiere di plastica. Ma la cooperativa ha in odio la plastica e dà invece bicchieri in Mater Bi da smaltire nell'organico).
Al secondo pilastro del bancone sono elencate le birre disponibili. Ci sono, come nel mondo del lavoro moderno, quelle stagionali (vale a dire precarie) e quelle fisse, col contratto a tempo indeterminato. Ogni tanto qualcuna fa il gran salto e, da temporanea, passa nell'olimpo delle durature, e quel giorno offre da bere alle colleghe.
Al bancone le chiacchiere con chi ti spilla la birra variano molto più di quanto una distribuzione gaussiana lascerebbe immaginare, da quale sia l'annata migliore di un certo vino ai consigli sull'andare, oppure no, a vivere insieme (e poi fare figli). E forse sarebbe una distribuzione da studiare. D'altro canto William Sealy Gosset - alias Student, quello della famosa T - spillava birre in una fabbrica della Guinness a Londra, fra una pubblicazione e l'altra.
E, potete starne sicuri, la matematica ingurgita questa città. La Normale le dà lustro. Galilei - più di Garibaldi - è stato qui. Ma anche Fermi e Pontecorvo. E Fibonacci.
Da queste parti è nata la CEP, il primo computer d'Italia. Ne porta testimonianza il museo degli strumenti, che ha trovato ubicazione ai vecchi macelli, vicino l'Arsenale e il lungarno.
Non solo Scienza, però, ha innamorato gli animi studenteschi di cui la città ha fatto sempre collezione temporanea. Profondamente intrecciata al sapere c'è, com'è ovvio, la politica.
Covo di anarchici, movimentisti, sognatori. Formatrice di studenti. Ce ne sono transitati a migliaia, che hanno svernato qui prima di riannodare la loro vita altrove.
Quando di matematica e di politica non se ne può più, ecco che ci si può rifugiare all'Orzo. O andarci di proposito, a parlare di politica e di matematica. O di tutto il restante...
A questo pub sono legati aneddoti ed episodi che sarebbe meglio tacere. Complici le innumerevoli Yeti e Martesane ingurgitate nei dopo-partita, la città ha avuto occasione di venire a conoscenza di una miriade di particolari (e molti intimi) di ognuno dei suoi abitanti.
Molte coppie si sono formate ai suoi tavoli, molte amicizie sono nate e fermentate al suo interno, molte vite e giovinezze sono state vuotate insieme ai boccali, e molte rivoluzioni sono state sognate e pianificate insieme al compagno Luppolo Fermentato.
In definitiva, l'Orzo Bruno è il miglior posto in cui trascorrere l'esistenza, ed il migliore dei birrifici possibili.
Giorgio Macauda
Il balcone delle Marche
Non è la mia cittadina, non vi abito, ma in qualche misura è diventata casa mia, forse più di quella reale, da quando ho iniziato ad insegnarvi in una scuola elementare.
E' un luogo che mi è entrato nel cuore perché riesce a coniugare il mio amore per l'arte, per la natura e per una vita lontana dal caos.
Sto parlando di Cingoli, un paese di poco più di 10.000 abitanti situato in provincia di Macerata, arroccato a quasi 700 metri su di un alto colle a ridosso dell’Appennino Umbro-marchigiano.
Già il suo soprannome ne definisce efficacemente la peculiarità: il Balcone delle Marche.
Nulla che ostacoli la vista verso est, in giornate serene e prive di umidità che come una grazia del cielo ci svelano i particolari più nascosti, lo sguardo riesce facilmente a spaziare sulla distesa di colline poste al di sotto del paese, colline amene, famose per la produzione di un vino che è ormai entrato nella considerazione degli esperti del settore e dei sommeliers: il Verdicchio dei colli di Jesi.
Da qui poi la vista spazia fino alla costa Adriatica, dal pesarese al maceratese, una linea su cui svetta la cima tondeggiante del monte Conero, unico vero rilievo sull’Adriatico prima del Gargano.
Queste limpide giornate possono regalarci a volte anche la visione accennata delle coste dalmate là, oltre la distesa azzurra del mare.
Guardando verso ovest invece, i verdi contrafforti dell’Appennino nascondono appena i monti retrostanti da cui emergono la cima del San Vicino, il rilievo più prossimo, e le vette dei Sibillini un poco più lontane.
Per chi vive nella scuola conoscere la storia e la cultura di un luogo, è cosa indispensabile da trasmettere alle nuove generazioni che in quel luogo vivono e crescono.
E anche in questo Cingoli può regalare vicende umane e bellezze artistiche davvero interessanti.
Prima insediamento piceno, poi municipio romano, nel Medioevo fu libero Comune fin quando non entrò a far parte dello Stato Pontificio.
Può vantare i natali di un papa, Pio VIII.
In un ideale percorso artistico, merita senz'altro una visita la Chiesa di S. Esuperanzio, una severa costruzione romanico-gotica ingentilita da un bel rosone, da uno straordinario portale del Trecento e, sul lato destro, da un loggiato a due ordini di colonne, quattro grandi sotto e dieci più piccole sopra, appartenenti all'annesso monastero. L'interno della chiesa a navata unica mostra ancora sulle pareti affreschi di scuola umbro-marchigiana parzialmente conservati, mentre la zona presbiteriale si presenta sopraelevata e divisa in tre spazi da colonne, nella bella cripta sottostante riposa il corpo del santo.
Nella chiesa di S. Domenico, invece, si può ammirare uno dei capolavori del Cinquecento, la Madonna del Rosario di Lorenzo Lotto, quasi due quadri in uno: nella parte inferiore compaiono Maria e il Bambino attorniati da Santi e Angeli in una complessa struttura compositiva, mentre in quella superiore quindici medaglioni posti davanti allo sfondo di un roseto, narrano ognuno un episodio della vita della Madonna o di Gesù.
Suggerisco di visitare anche la Chiesa di S. Filippo Neri che dietro un bel portale romanico nasconde al suo interno il gioiello di una stupenda scenografia seicentesca. Il piccolo spazio di questa chiesa si fa (anche per chi come me non apprezza troppo le forme barocche) sorprendente gioco di volumi, decorazioni a stucco e affreschi, che si fondono con grazia e misura.
Cingoli sa infatti coniugare vari aspetti, bellezza e storia, sport e vita all’aria aperta, cibi sani e genuini, che si possono gustare un po' dappertutto in zona, nei ristorantini immersi nella quiete dei vicoli cittadini o negli numerosi agriturismo inseriti nella cornice dei colli marchigiani.
La vita in questo luogo trascorre senza stress evidente, i rapporti umani sono cordiali, come di chi non deve guardarsi da minacce o ricostruire a fatica una pace perduta.
Uno dei riti a cui la gente di Cingoli è molto legata, sia i giovani che gli anziani, ognuno secondo le proprie capacità, è quello della passeggiata domenicale.
Non sto parlando della passeggiata lungo il corso principale che molte città vantano, altrimenti definita “struscio”, ma di una salutare passeggiata nel verde lungo la strada, poco trafficata, che va verso S. Severino Marche e che in circa 5 km arriva ad una galleria.
La maggior parte dei camminatori o podisti che vi arrivano, girano poi le spalle e tornano indietro verso il paese.
Per i più allenati da qui si aprono svariate possibilità con sentieri all’interno del bosco verso il bosco delle Tassinete da una parte o verso Pian de' Conti dall’altra.
Questi luoghi d’inverno si coprono spesso di un buon manto nevoso che a volte regge per qualche settimana.
E’ allora che io raggiungo il posto di lavoro con gli sci stretti montati sul tettuccio dell'auto.
I bambini lo sanno, oggi il maestro va a sciare e ridono perché trovano la cosa un po' bizzarra.
Così, dopo scuola, non torno subito a casa, il tempo di un panino e poi via attraverso i sentieri con i miei sci da fondo.
Nessun rumore molesto, solo il vento e la presenza di qualche ciclista (qui è pieno di ottimi tracciati per mountain bike) o di qualche buon camminatore, magari con il suo cane.
Sono scivolate comode, anche se non battute,
non ci sono salite troppo ardue o discese troppo difficili, su lunghi tratti si può andar via di pattinata, ma gli scorci che si incontrano, credetemi, non hanno molto da invidiare a quelli di località più famose.
E tutto questo a un tiro di schioppo dal paese.
Data la mia passione, non potrei chiedere di meglio.
Magari mi trasferirò qui, un po’ più in là con gli anni, per respirare il fresco delle serate estive o l'aria corroborante nelle giornate invernali, per immergermi nel silenzio e nella serenità dei luoghi, per vivere a contatto della bellezza e della storia.
Ma non crediate che Cingoli sia una cittadina poco adatta a famiglie con bambini: i giardini pubblici, molto grandi e curati, dispongono di vari giochi e giostre per i più piccoli, pista di pattinaggio, campo di calcetto e bocce e sono molto frequentati nei giorni festivi anche per l'ombra e gli spazi picnic a disposizione.
Inoltre nel territorio comunale sono presenti alcune vere eccellenze per il divertimento: una pista di motocross omologata per gare internazionali, un Parco Avventura con percorsi sugli alberi e altri attrezzati lungo le pareti di un canyon, con la chicca, per i più coraggiosi, di una tirolese gigante che va per circa 250 metri dal pendio di una montagna all'altra sfiorando la diga di Castreccioni e per finire uno dei migliori Acquapark del Centro Italia, il VerdeAzzurro, 3000 metri cubi di piscine, scivoli, percorsi su gommoni, spazi relax e centro fitness con villaggio turistico annesso.
Che dite, può bastare per convincervi a una visita?
Mauro Barbetti
Astino
Vorrei parlarvi del monastero di Astino (foto n. 0), che di recente è stata una delle sedi della ‘tre giorni’ che Bergamo ha dedicato al pastoralismo (per valorizzare luoghi e tradizioni di montagna): solamente la scorsa settimana, infatti, lì è arrivato un piccolo gregge di pecore.
Il monastero di Astino è situato nella città di Bergamo, ed è stato recentemente rivalutato da enti come il Comune e la Provincia di Bergamo, il Parco dei Colli, la fondazione Mia, l’Orto Botanico, la Regione Lombardia e lo Slow Food.
Nel mio itinerario spiego che è possibile raggiungere il monastero a piedi, partendo dal centro della città: precisamente si parte dalla chiesa di Santa Lucia in via XX Settembre, (foto n. 1, in cui si vede il lato della chiesa), che prende il nome dalla Santa protettrice della città di Bergamo.
Si attraversa quindi tutta via XX Settembre (foto n. 2), in direzione di Piazza Pontida (foto n. 3), piccola ma rinomata piazza della città; giunti lì si continuerà dritto per la strada che continua con il nome di via Broseta (foto n. 4), via lunghissima che collega il centro della città alla periferia.
Via Broseta si staglia infatti per circa 3 kilometri, uno stradone facilmente percorribile sul marciapiede: all’inizio vi è sulla destra il rinomato negozio di dolciumi Lazzarini (foto n. 5); quindi, trecento metri dopo, sulla sinistra vi è la coop; continuando sempre diritto (foto n. 6-7-8) si arriva alla chiesa della Madonna di Loreto, alla nostra sinistra, mentre altri trecento metri (foto n. 9) e vedremo, sempre sullo stesso lato, la croce rossa italiana (foto n. 10).
A questo punto la strada continua in leggera salita (foto n. 11), e curvando a destra (foto n. 12), per proseguire poi diritto (foto n. 13) fino in fondo, finchè cioè la via arriva cioè all’incrocio di via Longuelo e via Lochis (foto n. 14): a questo punto gireremo a sinistra, imboccando via Longuelo (foto n. 15), e percorrendola per cento metri circa; poi, ecco alla nostra destra via Astino (foto n. 16), ben indicata dalla segnaletica.
Via Astino è una strada inizialmente stretta e con una sola corsia (foto n. 17), che chiarisce immediatamente come, già al suo inizio, cambi improvvisamente il paesaggio e, non sembra di essere più nella città, ma di colpo ci si ritrova in aperta campagna.
Proseguendo sempre dritto, la via poi si allarga (foto n. 18-19-20); il paesaggio è davvero bellissimo, immerso nel verde che già caratterizzava il quartiere di Loreto, ma questo è un verde più genuino, quasi antico.
Si nota la presenza di case antiche (foto n. 21a-21c-21d) e casolari, orti (foto n. 21f) e frutti di bosco; vi sono terrazzamenti di terra (foto n. 21e) e campi di grano si estendono all’infinito (foto n. 21b). L’aria è diversa, migliore, e lo potrete sentire immediatamente voi stessi: insomma, essere ad Astino è davvero fare un tuffo nel passato, il tutto a poco più di un’ora di buon cammino dal centro di Bergamo (un paio di ore sono necessarie invece, per osservare le bellezze del luogo).
Giunti a metà strada, via Astino si biforca in due, continuando sulla destra (a sinistra invece c’è via Madonna del bosco, foto n. 22): è ben chiara la segnaletica. La strada, a questo punto, torna ad essere tutta dritta (foto n. 23-24) e si alterna la presenza del marciapiede, alla sua mancanza.
Astino fa una nuova biforcazione (foto n. 25), continuando a sinistra, per poi proseguire diritto (foto n. 26-28-29-30), trovando il monastero di Astino alla proprio nostra sinistra (foto n. 32-33).
E’ un’emozione camminare per questi luoghi, respirare l’aria che sa di montagna, osservare il paesaggio che circonda il luogo (foto n. 31): lì infatti, sembra di aver fatto un passo nel passato, alla presenza dei grandi proprietari terrieri, o di semplici contadini, gente comunque in grado di apprezzare le cose semplici, che ripagano la fatica del duro lavoro all’aria aperta.
Astino è una zona recentemente valorizzata da vari enti, tra cui l’Orto Botanico Lorenzo Rota, che vi organizza spesso iniziative per riscoprire ed apprezzare la bellezza del luogo, attraverso concerti o degustazioni guidate, per comprendere il valore di luoghi e prodotti della terra bergamasca.
Inoltre, la ristrutturazione che i vari enti hanno promosso, è stato evento importante per salvaguardare la campagna dentro la città che, con l’evento dedicato al pastoralismo, ha unito anche la montagna bergamasca ai valori e tradizioni della città di Bergamo.
Francesca Facoetti
Linee urbane
Ci sono sguardi sul mondo, attimi in cui il respiro si ferma e tutto appare chiaro, che si vorrebbero racchiudere in teche di vetro. Sono fotografie dai bordi vivi, custodi di colori e respiri naturali.
È con questo spirito che Walter, all’alba, riempie di vita la giornata da iniziare. Mentre attende l’uscita del caffè in cucina – aroma ristoratore per risvegliare il corpo – si affaccia dalla propria teca di vetro: un attico romano. Dalla finestra riempie di aria invernale i polmoni, stretto nella felpa e con l’immancabile sigaretta. Sbadiglia al nuovo giorno, e indugia a scrutare la piana sottostante. Ebbene sì, Walter è un privilegiato cittadino dell’Urbe, che gli ha portato in dono la vista della Caffarella, macchia verde tra due grandi arterie stradali, la Cristoforo Colombo e l’Appia. È il regalo quotidiano che questo uomo riceve, senza imballaggi né biglietti d’auguri. Con gli occhi lucidi per il freddo, sorseggia il suo caffè, fuma, e osserva.
Una coltre azzurrina e un po’ sfilacciata nei contorni nasconde il verde della distesa. Svettano intorno alberi smagriti delle loro foglie, nostalgici dei bei tempi primaverili, con i loro tronchi pieni di cicatrici e vita. La nebbia, custode della piana, sembra quasi un mimo, con i suoi lenti gesti sotto le prime pennellate rosa dell’alba. Non vuole cedere il passo ad altri figuranti: si attarda nei prati, sagome fini si nascondono tra i cespugli, sempre più fini vapori, poi svaniscono. Ecco un raggio di sole. Walter è ancora in casa, indossa la sua maschera, allaccia le scarpe – una sistemata veloce ai capelli, gel – e poi, direzione negozio. È meticoloso Walter, con quell’aria sognante tiene testa alle noiose clienti senza perdere né pazienza né sorriso. Ah, quanti colpi di spazzola avrebbe voluto dare a quei crani salottieri, pavoni sotto i loro colpi di sole e meches, occhi in cerca di approvazione forzata davanti lo specchio. – Basta che paghino – era il suo mantra, così dal martedì al sabato. Per il resto, le chiacchere vanno nel vuoto, il nulla appartiene al nulla.
Al termine del giorno, Walter ha un rito: fermarsi a casa di Gino.
Insomma, per il catasto non si tratta di un immobile uso abitazione, anzi, è pienamente un mobile adattato a tetto sulla testa, privo di qualsiasi documento a dichiararne l’esistenza. Gino e la sua roulotte: un gioiello di inventiva umana in pochi metri quadrati, incastonato in uno spiazzo al finire di una strada e la recinzione della Caffarella. Sembra essere sempre stato lì – intendo Gino. Dovrebbe avere circa cinquanta anni, ma il tempo è relativo, e lui appare come un perenne presente. Certo, la definizione barbone gli si addice. Una barba biondiccia, ogni tanto curata, spesso tramuta in Medusa con mille serpi in tutte le direzioni. Cerca di fare del suo meglio, con la ferraglia stanata dentro i cassonetti dell’immondizia rende giustizia alla fantasia. Nascono audaci soprammobili, schegge impazzite da corpi acuminati, portapane in attesa di tovaglioli ricamati e grano lavorato, linee umane da appendere alla luce di candele. È un maestro Gino – così si fa chiamare. Piano piano il quartiere è diventato suo allievo, e le sue storie sono giunte anche ai controllori nella metropolitana, da Furio Camillo a Colli Albani. Ogni tanto le lamentele sembrano far vacillare la roulotte, ma tra il grigiore urbano il maestro, in questo spicchio di Roma, mantiene saldo un posto d’onore. Walter lo conosce da quando bambino, insieme alla combriccola, andava a bussare alla porta azzurra dell’abitacolo, pensando che uscisse chissà quale orrendo mostro. E invece sbucava Gino, allora ragazzo, con la tuta blu da meccanico dei sentimenti, pinze e viti nelle tasche, cappello fatto col giornale, e una risata di chi non conosce tristezza di sé. Che poi, nessuno sa il suo vero nome: maestro è sufficiente, chissà quale anagrafe lo ha realmente conosciuto.
Walter si presenta dal suo amico con la spesa, e come lui molti del vicinato: aiuti ben accetti. Decine di case intorno hanno dei manufatti firmati Gino, prezzi modici, a discrezione del committente. Ci campa il maestro, non scialacqua, cinghia stretta, ma il risultato è una vita dignitosa. Fuori dalle righe, senza dubbio, di certo difficile, aspra e a volte spietata: così lui ha scelto, così prosegue.
Narra il nostro Gino, dipinge a chi ascolta la sua Caffarella, quella dell’alba e del tramonto, del freddo inverno e della brina sui prati, una corazza poetica per il miracolo della natura. Si stupisce il nostro amico ogni giorno, ogni dettaglio che scopre è meraviglia, un tassello in più per la consapevolezza del mondo. Si dilunga nel raccontare dei passeri con il loro nido sopra il ninfeo di Egeria, con l’acqua ricoperta di minuscole piante, un telo verde acceso di forma all’incirca rettangolare, cinguettano i pennuti e lui ci parla. Che lo prendano pure per matto i ciclisti della domenica di passaggio – non sanno quali segreti vengono confessati al maestro, quanti aneddoti del parco sono svelati.
Walter lo ammira.
Una mattina - come sempre caffè e sigaretta in finestra – ha guardato la piana, la nebbia addormentata, e lo spiazzo. Gino se ne è andato, costruisce sogni di metallo in qualche altra città. Sono rimasti la roulotte, qualche vite, e molte case con ferree sculture. Molti sono delusi di quell’abbandono. Il quartiere era la casa del maestro, o forse una piazzola di sosta nella sua vita da errante.
Gabriele Salini
La mia Dronero
Quanto amo la mia Dronero. Semplicemente la amo per come si mostra. Splendente, romantica sognatrice di tempi andati racchiude, fra le sue vecchie mura, antiche leggende, racconti di epoche che furono, ataviche tradizioni della gente che la abitò. Nel quiete della notte, quando il silenzio avvolge le membra stanche dei suoi abitanti, amo passeggiare fra i vicoletti e le piccole strade scoprendo ogni volta colori dettagli ed emozioni nuove; di giorno, quando la cittadina si sveglia, la attraverso cavalcando la mia vecchia Monviso, e il vento mi si infila fra i capelli, risvegliandomi i sensi e ricordandomi ogni volta di più quanto sia bella la vita. Bella la vita, bella la mia cara Dronero.
C’è un anziano signore, ogni giorno seduto sotto i portici, sulla stessa panchina. I suoi occhi azzurri mi riportano al cielo limpido e terso delle migliori domeniche settembrine, quando mi siedo nel giardino di casa ad ammirare la maestosità della valle che si apre oltre Dronero. Laggiù, le vedo, le cime del Chersogno del Pelvo e della Marchisa, e mi sembra di poterle toccare con un dito, tastandone ogni singola increspatura, come se fosse una reale panoramica stampata su carta cotone. E invece è terra, sono rocce, sono giovani camosci che svettano al cielo e vacche all’alpeggio i cui campanacci ad ogni loro passo compongo armoniche sinfonie d’altura, delle specie di intime preghiere a quel Dio che, da lassù, sembra essere un poco più vicino.
Quando poi, ho la fortuna e l’orgoglio di poter accompagnare gruppi di turisti al mio paese, sono grata. Grata perché, a fronte di una professione (quella di guida turistica) che alle volte diventa seriale e può peccare di mancanza di emozione, raccontare le storie e le leggende di Dronero per me racchiude un significato enorme, in primis per l’enorme passione ed eredità culturale trasmessami dai miei genitori, in secondo luogo perché ritengo che questo sia un posto adatto a chi è in cerca di se stesso, di quiete, di spazio e tempo per riflettere. O semplicemente per gustare la bellezza. Per questo motivo la prima raccomandazione che rivolgo alle persone è quella di prendersi del tempo. Perché il rischio, essendo questa cittadina di transito verso la valle Maira, è quello di attraversarla velocemente con l’auto senza cogliere nulla della sua vera essenza. Dunque insisto sulla lentezza, sul fatto che Dronero vada vissuta e visitata sulle proprie gambe, a piedi o in bicicletta, senza bisogno di grandi spiegazioni, ma semplicemente con la voglia e la curiosità di alzare il naso al cielo ed osservare. Perché la mia cara vecchia Dronero è in realtà un variegato collage di fotografie, di singole istantanee, di particolari architettonici e scorci paesaggistici che vanno a comporne il nucleo storico. Passeggiando sul Ponte del Diavolo, antico collegamento medievale al quale doverosamente si lega una leggenda, fino al vecchio mulino dove ancora vengono sfornati deliziosi biscotti, e poi intorno alle vecchie mura, alla parrocchiale che sulla facciata ricalca ataviche simbologie di umanità lontanissime (anche se noi pensiamo siano decorazioni cristiane!), alle signorili ville sorte qua e la come funghi nel boom del mercato della seta penso sempre che nulla ha questo paese da invidiare agli splendidi borghi del centro Italia. Forse solo la scaltrezza dei suoi abitanti, che evidentemente sono stati più abili a promuovere il proprio territorio.
Ma questo è l’altro lato che mi affascina di Dronero e della sua splendida valle Maira. La mentalità. Gente di montagna dura, a tratti austera, ma dal cuore profondo. Gente che ha sfidato il tempo e la sorte per poter campare, gente che non si è arresa di fronte alle grandi sfide della guerra, dell’emigrazione, gente che nei momenti più duri si è saputa reinventare con mestieri nuovi, intraprendenti e innovativi. E di qui nasce la lunga e paradossale tradizione dei commercianti di acciughe, il mare portato ai monti, piuttosto che quella dei caviè, i venditori di capelli che si sono arricchiti raccogliendo le ciocche delle donne per fabbricare le parrucche delle grandi nobiltà europee.
Ma arriva il momento in cui è giusto che le parole lascino spazio ai sensi. Il mio invito, caloroso ed accogliente, è quello di venire personalmente a visitare queste terre. Troverete tanti tedeschi e svizzeri, pochi turisti italiani, perché qui siamo al di fuori delle grandi rotte del turismo massale. Ma quello che vi possiamo offrire garantisco che è autentico e alle volte un po’ spartano. Ma qui sta proprio il fascino della vostra gita.
Allora…vi aspetto per gustare un buon caffè all’alba o un aperitivo al tramonto sulla terrazza del teatro cittadino. Sarete voi a dirmi se ne è valsa o meno la pena!
Daniela Rebuffo
Andai per Verbania perché volevo vivere deliberatamente
Dicono che qui non c'è mai niente da fare. Dicono che è la città dei vecchi. Dicono che, a dire il vero, non è nemmeno una città, ma l'unione di tre grossi paesi. Né carne né pesce insomma. Forse solo alborelle fritte. Eppure io in Verbania ho sempre visto qualcosa di più, un lato nascosto, forse quel lato che chi ci abita spesso non riesce a cogliere, nel trambusto della vita moderna, nella corsa verso la scuola, l'ufficio, il supermercato. Ma basta uscire di casa un giorno qualsiasi, inforcare la bici, facendo la gincana tra le auto e le numerosissime rotatorie, e un paradiso di luci e colori si dispiega davanti agli occhi. Appena giunti sul lungo lago la vista è meravigliosa: da Intra si vede tutta la costa lombarda del lago Maggiore, i traghetti che, tra le onde, fanno da spola tra Intra e Laveno, e poi l'orizzonte si allunga verso la Svizzera, le montagne gelide si stagliano nel cielo limpido, mentre verso Santa Caterina i pomeriggi d'inverno spesso si forma finissima bruma. Tutto intorno, gli stridi dei gabbiani si fanno più intensi, alla ricerca spasmodica di qualcosa da mettere sotto il becco.
Pedalando verso Pallanza si incontra finalmente la pista ciclabile che costeggia da un lato il lago e dall'altro la Castagnola, il quartiere “in”, dove i facoltosi signori costruirono le loro dimore ottocentesche. Non è un caso che qui si trovino anche i Giardini di Villa Taranto, una delle perle del Maggiore. E a dominare la collinetta della Castagnola e tutta Verbania c'è la punta di diamante di Verbania, un diamante che troppo spesso è stato dimenticato, ma che può tornare a rappresentare il polmone verde della cittadina: Villa San Remigio e il suo parco, adiacente ai giardini di Villa Taranto, è stata il sogno d'amore di Sophie e Silvio della Valle di Casanova, un sogno che ha saputo ricongiungere la cultura umana, la poesia, l'architettura e l'arte del giardino, e la natura, che in questo luogo magico, da cui si può ammirare l'enorme distesa d'acqua del lago dalla Svizzera fino a Ispra e Belgirate, riesce a comunicare con l'osservatore umano. I giardini ideati da Sophie, infatti, sono giardini a tema, e ogni giardino ha ancora oggi la capacità di evocare la mestizia, la letizia o la tranquillità dello scorrere lento delle ore, passate tra le esedre, le fontane e i cespigli di bosso.
Riscendendo a lago sempre in sella alla nostra bici, si giunge fino al grazioso lungo lago di Pallanza, dove un altro scenario si schiude alla vista: Stresa e le isole, i raggi del sole cullati dalle acque calme, cigni e germani che affollano la costa. Poche pedalate e si è a Suna, frazione storica di pescatori e lavandaie, dove ancora sono ancorate le barche in legno senza motore e dove i ragazzi d'estate, come i cigni di Pallanza, si accalcano per un tuffo nel Maggiore. Tra locali alla moda e trattorie tipiche, dove si possono gustare gli gnocchetti ossolani e il pesce del lago, si può proseguire costeggiando il lago. Purtroppo ci si deve scontrare con la realtà e con la statale del lago Maggiore, ma dopo una decina di minuti si può agilmente raggiungere un'altra oasi di pace: la Riserva di Fondotoce, il baluardo di zona umida, dove il Toce si getta nel lago Maggiore. Si entra nella riserva oltrepassando un piccolo ponte di legno e già fermandosi un attimo sul ponte si può vedere l'acqua incresparsi e una ranocchia saltellare nella fanghiglia. Nonostante abbia superato il ponte molte volte, ogni volta mi assale la stessa stupenda sensazione: si lascia alle spalle la caotica statale e, con essa, tutti i problemi legati al mondo moderno, la corsa folle verso una vita che non sarà mai totalmente libera, e si entra in un mondo incantato, dove tra le fitte betulle, i salici e i canneti, si potrebbero sentire elfi e fate sussurrarci dolci parole all'orecchio, parole come rimani o piano.
D'estate, riparati dalla coperta verde delle fronde, nella riserva si creano giochi di luci e ombre e si fanno incontri ormai fin troppo rari: le farfalle, dalle livree più disparate, volteggiano gioiose, il brusio delle api è costante, a ricordare al passante che qui c'è qualcuno che lavora duramente, i ragni sembrano vogliano costruire una metropoli tra i rovi di more, cercando di sfuggire ai voli spericolati dei passeri e dei pettirossi. D'inverno è tutto più calmo e limpido. Il sole, quando c'è, filtra senza problemi fino al terreno umido e duro, le api sono in sciopero, qualche uccellino fa capolino tra i rami. A stento riesci a sentire il rumore lontano della vita umana. A stento riesci a sentire te stesso. È tutto fermo, immobile eppure in costante evoluzione. Proseguendo sul sentiero sconnesso si arriva nuovamente al lago: una piccola spiaggia, della sabbia fine e una coppia di germani in gita. Non c'è nessuno, si potrebbe correre il rischio di dimenticarsi il tempo qui.
Ma devi tornare, sai che non potrai evitare il momento del ritorno. Di nuovo in bici, fuori dalla Riserva, fuori dal sogno, dall'universo fatato in cui solo Puck e Mab avrebbero potuto trattenerti. Si ritorna sulla statale, ma Verbania ha ancora qualcosa da offrire. Infatti, anche le colline e le basse montagne sono un gioiello. Da Suna si può salire, per chi ha le gambe e i polmoni allenati, fino al Monte Rosso, che deve il proprio nome al fuoco di foglie d'autunno che incendia i suoi pendi, una Indian Summer tutta italiana. Salendo per la strada tortuosa le case si fanno più sporadiche, il vento si alza, e lentamente la vista si estende su buona parte dell'amato lago, che riserva allo spettatore attento così tante sfumature diverse da lasciar sempre stupefatti. Si arriva finalmente a Cavandone, il “paese dei narratori”. Qui il tempo sembra di nuovo essersi fermato a 150 anni fa: ancora viottoli, stradine, bambini che corrono dietro a un pallone in piazza, gatti che sonnecchiano e si stiracchiano stropicciati al sole, le vecchie cascine ancora abitate, le case di ringhiera, i panni candidi stesi, il vecchio pozzo. Davvero qui si respira un'aria diversa, un'aria antica, la stessa aria malinconica del Giardino della Mestizia di Villa San Remigio. L'aria di un tempo e uno stile di vita perduto, ma che può essere ritrovato. Con calma e pazienza, tra il ronzare delle api, gli ulivi, quei prodotti locali di cui anche noi andiamo fieri, i piccoli mercatini di paese e le persone che ancora si salutano per strada.
Dicono che Verbania non è né una città né un paese. E forse hanno ragione. Forse questo è il suo valore aggiunto: piste ciclabili, una buona rete di trasporto pubblico, locali e negozi, iniziative vivaci per svegliare una cittadina spesso definita dormiente, ma che tuttavia conserva inalterato il piacere di poter riposare in tranquillità, cullata dal lago, che da sempre è il padrone incontrastato di questo lembo di terra. Proprio il lago sa rendere ogni giorno unico e speciale, mescolando nelle sue acque colori, profumi, animali e piante. È per questo che a Verbania c'è sempre qualcosa da fare, se solo si è disposti ad abbandonare l'orologio, le automobili roboanti e gli agi superflui della vita di città, una vita che in realtà non è mai totalmente nostra, totalmente libera. Basta però sedersi in spiaggia, sotto un salice slanciato, e guardare quanto la natura ci ha da sempre regalato: i suoi silenzi alati, i suoi assensi di onda, le sue occhiate tra i nembi rosacei, le paludi fertili, in cui tutto ritorna a far parte del tutto, le navi beccute cariche di candidi fiori di piuma, i vecchi olmi, custodi di reconditi segreti, i timidi lavoratori instancabili, che rendono omaggio all'unicità di ogni singolo giorno col loro nettare divino. Forse altri mille luoghi possono offrirci questo, e forse l'importanza non è il dove si va, ma come.
Anastasia Cardone
Nelle terre di un vulcanico silenzio
Ricerca dell’armonia, fuga dal tempo. Apertura dello spazio. Silenzio. Lo sguardo si dilata sulla concorde varietà tonale del paesaggio. Dal manto rossastro affiorano boschi, vigneti e memorie custodite nella voce del poeta.
Il mio viaggio a Venosa mi svela la città più antica della Basilicata, una terra che ogni volta mi regala le sembianze del pianeta come dovrebbe essere, preservato nel suo splendore incontaminato, tra vette montuose e fertili campagne solcate da quattro fiumi nel limitare di due mari, lo Ionio e il Tirreno. Montagne e pianure. Mari e fiumi. E un vulcano spento, il Vulture, con le sue trenta miglia di circonferenza, e trenta miglia distante dalla più vicina sponda dell’Adriatico.
Venosa giace alle sue pendici, immersa tra i floridi vigneti del celebre Aglianico del Vulture, introdotto in questa zona dai greci mentre i romani fondavano Roma. Le essenze elleniche si spargono tra le impronte romane in questo lembo di Lucania, a nord-est in provincia di Potenza, al confine con la Puglia.
Lungo i declivi rigogliosi, Venosa appare “lunga e piana, pendente ai lati”, come la descriveva nel ‘500 il poeta indigeno Luigi Tansillo, rimandando alle due valli che la delimitano, la Valle del Reale e la Valle del Ruscello, in cui scorrono i due fiumi. I latini la fondarono nel 291 a.C e la chiamarono “Venusia”, forse perché vi ravvisarono la stessa bellezza di Venus, dea dell’amore.
Conosciuta soprattutto per essere il paese d’origine del sommo poeta latino Orazio, la città lega la sua fama all’immenso patrimonio di età romana e medievale disseminato nel borgo a ogni passo e in gran parte racchiuso nel Parco Archeologico che conserva i resti monumentali della colonia latina.
L’anfiteatro, le terme, la domus testimoniano la “vanitas”, vessillo di un antico splendore, cristallizzato tra reperti, ipotesi e realtà. E penso che questo immane patrimonio storico non abbia ancora trovato dignitosa valorizzazione del suo estremo valore. L'incuria generale è imperdonabile, eppure il reato in flagrante lo consuma l’Abbazia dell’Incompiuta. Che mi rapisce. Mi ritrovo tra filari di colonne che abbozzano navate, il pavimento è prato, il tetto è cielo. Eretta in gran parte utilizzando elementi di recupero provenienti dalle adiacenti rovine romane, l’Abbazia vide i lavori di costruzione interrompersi nel corso del Trecento e non fu mai portata a compimento. Rimase, pertanto, "Incompiuta" e incombe sullo sfondo del parco con quei vuoti che solo gli occhi della mente possono completare.
I sontuosi monumenti del centro storico, le iscrizioni su pietra, le epigrafi e gli inserti marmorei di cui la città è straordinariamente ricca, ne fanno un museo a cielo aperto, come dovrebbe predisporsi lo spirito, qui straordinariamente ispirato dal sentimento lirico di Quinto Orazio Flacco, nato a Venosa nel 65 a.C.
E' irrinunciabile la visita alla sua “presunta casa”. Accedo in questa domus patrizia e scopro che la dimora risalirebbe per ad almeno un secolo dopo la nascita del poeta. La notizia è deludente ma il luogo racchiude comunque un suggestivo valore architettonico e storico, e rievoca i noti aforismi del poeta che si tramandano da duemila anni. “Carpe diem, quam minimum credula postero”. Godi il giorno che passa, confidando meno che puoi nel domani.
L’ode oraziana mi esorta a cogliere, con perdonabile stile prosaico, le opportunità degustative delle specialità lucane fra cui spiccano, per dolcezza e croccantezza, i Peperoni Cruschi di Senise. Raccolti in estate, vengono lasciati asciugare su teli per poi essere legati con ago e filo, e appesi in grandi "serte" (collane), esposte al sole sugli usci delle case, per terminare la fase di essiccazione.
L’infinita poetica del vate lucano mi sospinge all’ineludibile assaggio di “Lagane, ceci e porri”, immortalate dallo stesso Orazio nelle sue Satire. Mi avvolgo nel gusto di un rustico amalgama di legumi locali e fettucce fatte in casa, larghe e spesse come i solchi della tradizione agreste lucana.
Avvolta dai filari dei vigneti da cui sgorga il celebre Aglianico del Vulture, qui fieramente appellato il “Barolo del sud”, “nunc est bibendum” (Orazio, Odi). Ora si deve bere.
E mi abbandono a un verso crepuscolare: «Infine, me ne vado a dormire, senza il pensiero di dovermi alzare presto la mattina». (Orazio, Satire). Buon vento.
Sabrina Merolla
“ …Respiro piano verso quel sole narrando al vento le mie parole, e i vecchi ulivi da sfondo al mare sciami di mosche fermi ad oziare, leggiadre piume ferme a galleggiare densa quell'afa calda da respirare…”
È così, con queste poche righe di una canzone a me molto cara, che voglio raccontarvi della la mia città, della la mia terra incontaminata, naturale, imperfetta forse, arretrata ma di sicuro conservatrice di una spontaneità donata. Sono arrivata questa mattina in aeroporto dopo un assenza di quasi tre mesi che mi ha visto lontana per motivi di studio. Lascio borse, bagagli, computer. La mia casa mi accoglie come sempre ma oggi ho voglia di respirare, annusare, sentire sulla pelle. Ho bisogno di ritrovare il mio equilibrio interiore e non potevo non partire da questi luoghi che mi hanno visto crescere per una vita intera. Prendo in prestito la bici di papà, perfettamente funzionante. Mi preparo al sole salentino che picchia,. Mi preparo alla fame che potrebbe sopraggiungere. Mi “nzuppo" due friselle con pomodoro, sale, olio e origano" tutto rigorosamente prodotto in casa, dalle mani vecchie del nonno che nonostante i suoi novanta anni non smette ancora di andare in campagna. Non ha un acciacco, non ha mai preso un medicinale in vita sua, si è sempre curato con i cosiddetti rimedi "della nonna”. Il potere della vita sana? Si, non posso non crederci. E a volte vorrei essere nata nella sua epoca, quando tutto era più sano, più autentico, più ecologico. Chiusa questa parentesi, sono pronta. Borraccia nella sacca ed esco. Questa giornata la passerò così, tra ulivi e muri a secco, tra alberi e terra rossa, tra scorci di mare e panorami mozzafiato. La passerò tra i percorsi ciclo turistici di una marina leccese che il turista per caso non conosce, ma che spero un giorno conoscerà. Mi addentrerò in sentieri selvaggi che mi faranno sempre sorprendere dello splendore di questo mondo. Lascio quindi il centro storico alle spalle e mi dirigo a nord - est di Lecce. L’ itinerario prevede strade rurali asfaltate a scarso traffico automobilistico. Ho intenzione di passare per il Parco Naturale del Rauccio, la cosiddetta "via del mare" ovvero Lecce - Torre Chianca. Gradirei macinare tanti chilometri ma non sono allenatissima e per oggi mi accontento. Lascio alle spalle il centro abitato e inizio la mia breve ma intensa avventura. Per questa giornata non mi concedo neanche il lusso delle cuffiette. Credo tanto anche nel potere della musica ma è anche vero che ti allontana dalla realtà. In questo caso mi farebbe perdere il contatto con la natura. Questa mattina voglio percepire tutto, ogni singolo rumore, ogni singolo cinguettio, ogni singolo odore e ogni singola sensazione. Inizio a pedalare. Che bella la mia terra. Tutti la conoscono ma pochi la vivono per davvero. Sono tutti abbagliati e folgorati dall'idea di un Salento festaiolo, mondano, luogo per eccellenza delle feste sulla spiaggia, delle discoteche in riva al mare. L' estate in Salento è un mito. I lidi sono strabordanti, le strade sono intasate, i parcheggi diventano un mercato. Tutti vogliono la prima fila, tutti seguono la massa. Tutti voglio toccare per credere, e così ci ritroviamo delle destinazioni al limite della sostenibilità. Ma non sarà un po' troppo stressante per tutti? La vacanza risulterà molto bella e divertente per carità, ma la mia terra è anche altro, e questo concetto è solo per pochi. O meglio potrebbe essere per tutti se solo lo si volesse. Mentre mi frullano per la testa questi pensieri ecco che, immersa nel verde mi ritrovo a salutare un contadino. Sorridente e accogliente, come la mia gente. Mi fermo per scambiarci due parole. È il proprietario di un masseria, produttore da decenni, allevatore e all’occorrenza affittacamere. Mi chiede incuriosito il perché del mio passaggio, non devono transitare molte persone da li, un vero peccato. Decido di fare tappa qui, ne approfitto per riprendere un po’ di energia. L’ afa del Salento, credetemi è più che sfiancante. La cosa bella di queste “escursioni” è poter improvvisare, è poter cambiare direzione o programma quando lo si vuole. Poter fermarsi più del dovuto, senza un clacson strimpellante che ti suona alle spalle. Poter godere al massimo con il minimo. Con la disarmante semplicità di un luogo. Lascio la mia bicicletta all’ombra di un ulivo, uno di quelli secolari, possenti con le radici ben piantate nella terra ma con i rami al vento, pronti a scompigliarsi. Mi guardo intorno, che spettacolo. Che silenzio. Vorrei catturare tutte queste sensazioni e portarle con me, per affrontare i giorni caotici di una vita in città quando ne avrò bisogno. Vorrei che più gente provasse questi momenti di relax, vorrei che più compaesani raccontassero di un “Salento” alternativo. Tra tutti i miei vorrei, riesco a fare la mia bella esperienza. Porto a casa una bottiglia di vino corposo, una passeggiata nei filari tra i pomodori rossi , l’odore un po’ forte dei cavalli nelle stalle e delle pecore al pascolo. Porto a casa l’ assaggio di un formaggio, il sapore aspro dei fichi. Continuo a scrutare con lo sguardo, a scoprire, a sorprendermi. Continuo a convincermi sempre più di aver fatto bene a optare per questa “gita fuori porta” piuttosto che una semplice giornata al mare, al fresco di un ombrellone, ma lontana da tutti questi spunti, questi stimoli. Affianco come previsto la riserva naturale del Rauccio, che ad essere sincera “corteggiavo da un p”. E’ completamente verde. E folta. E variegata. E colorata. E piacevolmente aggressiva. E’ grande. Nel parco si ritrovano i tipici elementi del paesaggio rurale dell’area mediterranea. So per certo, documentandomi che dovrebbero esserci delle paludi, degli stagni ma la direzione presa, mi porta a ritrovarmi davanti un’ antica torre, accerchiata da resti di muretti a secco e costruzioni di pietra informe. Mi avvicino, alla ricerca di informazioni. Qualche sguardo ai pannelli illustrativi e capisco che mi trovo in un complesso masserizio fortificato, provvisto di frantoio ipogeo all’ interno, databile tra il XVI e il XVIII secolo. Do uno sguardo alla mappa. Non ce la farò a visitare tutto. Le zone di interesse non sono poche. Faccio una scelta, e la vicinanza con la splendida Abbazia romanica di Cerrate (XII sec.), adibita anche a Museo delle Tradizioni Popolari fa si che la mia scelta ricada sul “percorso” architettonico, almeno per oggi, cosi’ da poter portare via un ricordo completo e variegato. Mi va bene. Terminerò li la mia “passeggiata”, considerando i tempi tecnici di arrivo. Tempo un’ oretta e con un po’ di difficoltà, in quanto un po’ nascosta e con poche indicazioni, riesco a intravedere l’ abbazia. Mi accoglie un’ ampio spazio. Si respira storia qui, si respira identità, si respira cultura. Leggo da qualche parte che sono stati fatti degli interventi, che un po’ di associazioni si stanno interessando. Sono contenta. E’ sempre troppo poco valorizzata tutta questa ricchezza. Tutto questo contribuisce ad elevare notevolmente il valore di tutta l’area ma perché se chiedo in giro pochissimi la conoscono? Tanti sono i perché che mi affollano nella testa ma una convinzione sopraggiunge. Ho deciso di andare fuori per studiare turismo. Dovrei laurearmi a breve e di una cosa sono certa…tornerò anche solo per fare qualcosa nel mio territorio. Mi muoverò per valorizzare, per promuovere, per dare evidenza a queste zone. Spingerò affinché un domani possa svilupparsi in moto etico e responsabile. E una promessa. Nel mio piccolo proverò a fare grandi cose. Per oggi torno a casa soddisfatta, arricchita e stanca.
Silvia Guacci
Ostia: al di qua del mare
Sebbene Ostia venga spesso considerata soltanto come destinazione balneare della città di Roma, in realtà essa ha diverse vocazioni e per questo può rappresentare un'opportunità per immergersi in un territorio che ha molto da offrire in termini di natura, storia e attività da svolgere durante tutto l'anno.
Ostia e… la natura
Percorrendo la via Litoranea che collega Ostia a Torvajanica, ci troviamo immersi in un ecosistema particolare; da un lato troviamo la costa, dall’altro si estende la vasta pineta. La strada asfaltata divide i due ambienti quasi fossero due entità distinte le cui diversità vegetative vanno ad integrarsi facendo da contraltare alla distesa marina. La duna è caratterizzata da specie vegetali tipiche come tamerici, ginepri, erica e camomilla marina…un delicato ecosistema da tutelare e difendere e che poco più in là lascia spazio alla macchia mediterranea caratterizzata in prevalenza da querce, lecci, pioppi e pini domestici, habitat di una fauna variegata. La riserva naturale di Castel Porziano costituisce la tenuta presidenziale e per questo non liberamente accessibile al pubblico se non dietro speciali permessi; chi invece avesse comunque voglia di inoltrarsi all’interno della macchia alberata, la pineta di Castel Fusano permette di trascorrere qualche ora di completo relax lontano dalla frenesia cittadina in sella ad una bicicletta, facendo un’escursione a cavallo o semplicemente percorrendone i sentieri a piedi. Infatti, in quest'area verde molto frequentata dagli abitanti di Ostia e non solo, sono presenti numerosi itinerari, alcuni sterrati per chi vuole avventurarsi nel bosco, altri asfaltati per chi invece preferisce non addentrarsi troppo.
… la storia
Nascosta in questa oasi naturale a ridosso del mare si nascondono ai più gli antichi resti della villa di Plinio il Giovane: un peristilio, un complesso termale, un pavimento in mosaico bianco e nero e diversi basamenti in muratura sono gli elementi principali che catturano l'attenzione del visitatore. Il territorio che si estende fino alla foce del Tevere è ricco di richiami storici, segno dell'antica presenza della civiltà romana e dell'intenso rapporto tra l'uomo e l'ambiente; gli scavi della vicina Ostia Antica ne sono la testimonianza più viva. Passeggiando curiosi all'interno del sito archeologico, possiamo rivivere con un po’ di immaginazione la vivacità delle diverse attività di un tempo: le tabernae, i magazzini, il foro, le terme e l'anfiteatro, ancora oggi cornice suggestiva nelle sere d'estate di spettacoli di ogni genere. A poca distanza dagli scavi la presenza imponente del castello di papa Giulio II fa riflettere su come il mare fosse allo stesso tempo fonte di ricchezza e di minaccia; erano, infatti, frequenti gli attacchi dei pirati, costantemente impegnati a saccheggiare le coste del Mediterraneo. La fortificazione racchiude un borgo ricco di viuzze che conducono alla cattedrale di S. Aurea che sorge sulla piazza antistante. L'antica fontana, le lanterne e le numerose piante e fiori che decorano gli usci e le finestre delle caratteristiche dimore, conferiscono un'atmosfera romantica in cui sembra che il tempo si sia fermato. Il borgo è spesso sede di mostre pittoriche en plein air e teatro di set cinematografici e fotografici per le giovani coppie di sposi. Dirigendoci nuovamente verso il mare troviamo altri due esempi di fortificazioni costiere: la Torre Boacciana e Forte S. Michele. Entrambe le vedette giacciono in zone abbandonate nonostante la loro rilevanza storica e architettonica, infatti, il progetto del Forte oltre a una presunta paternità del Buonarroti rappresenta una rivoluzione in fatto di difesa costiera per via della sua base ottagonale piuttosto che quadrangolare.
… oggi
Seguendo l’odore del mare e non molto lontano dal Forte troviamo il porto turistico di Roma che ricostruito nel 2001 ha riqualificato una zona prima soggetta all’incuria. I due fari all’ingresso del porto segnalano alle imbarcazioni la possibilità di un attracco mentre nell’area pedonale adiacente si può trascorrere del tempo guardando le vetrine sotto i portici che offrono nelle giornate ventose un po’ di riparo. Se invece preferiamo la bicicletta ai negozi possiamo percorrere la pista ciclabile che inizia proprio da qui e che prosegue per un tratto del lungomare. Allontanandosi dal tintinnio delle barche che come un coro di campanelli mossi dal vento salutano il visitatore, lo sguardo è catturato dalla distesa marina fino al Pontile, simbolo della cittadina costiera. Antico stabilimento balneare nella prima metà del secolo scorso, il Pontile rappresenta oggi il luogo di ritrovo degli abitanti di Ostia dove è possibile scambiare due chiacchiere tra amici e ascoltare la musica degli artisti di strada. L’antistante piazza dei Ravennati ricorda storicamente l’opera di bonifica svolta dai romagnoli nel XIX sec. La trasformazione del centro in un’isola pedonale ha dato nuova luce alla piazza Anco Marzio per chi volesse prendere un caffè o un aperitivo in uno dei numerosi bar e sfogliare un giornale su una delle panchine vicino alle aiuole. Senza allontanarsi molto ci si
ritrova di fronte alla statua del patrono di Ostia S. Agostino che qui giunse all’inizio del cristianesimo con la madre Monica alla quale è stata dedicata una chiesa della cittadina. A simboleggiare lo stretto legame della cittadina col mare, la facciata della chiesa Regina Pacis, rivolta volutamente verso il mare, vuole indicare l’abbraccio della Madonna al mondo. Proseguendo sulla costa in direzione della Pineta di Castel Fusano e a conclusione di questo itinerario iniziato proprio da qui, l’ultima ma suggestiva sosta è dedicata al borghetto dei pescatori, un agglomerato di poche abitazioni strette intorno alla statua di S. Nicola di Bari, da sempre protettore di chi lavora in mare. Sorto sulla riva del Canale dei Pescatori, il piccolo borgo costituisce un angolo caratteristico nel quale le reti dei pescatori adagiate sulle modeste casine dai colori tenui con le persiane ancora in legno conferiscono un’ atmosfera unica nel suo genere ma parte integrante della storia di Ostia. La folkloristica sagra della tellina che colora ancor di più il villaggio nelle calde sere d’agosto sottolinea nuovamente lo stretto legame che unisce l’uomo al mare. E dopo un’intensa giornata trascorsa alla scoperta
di natura, arte e storia, non rimane altro che rimanere un momento in silenzio e respirare profondamente l’aria del mare.
Sara Terrica e Valeria Durante
Bisbigli meneghini
E’ un tardo pomeriggio d’autunno. Il vento, ancora tiepido, sibila tra i palazzi e porta via le voci della città. Usciamo da una libreria discutendo dei nostri viaggi in giro per il mondo. Il sole spende ancora e corre verso il tramonto, dove s’intrappolerà nel groviglio delle gru che alzano i nuovi grattacieli.
Dobbiamo tornare verso la zona dello stadio, diametralmente opposto a noi. Il biglietto della metropolitana è già pronto nei portafogli, ma la discussione è animata, un caleidoscopio di ricordi del passato e idee per viaggi futuri, che non vogliamo esaurire in pochi minuti.
Decidiamo di lasciare sferragliare il treno sui binari sotterranei, sballottare i manichini, forse persone, distrattamente immerse nel proprio io.
Lasciamo le note del suonatore zingaro, stonate dalla stanchezza e dall’indifferenza dei passeggeri, e la sua cantilena, che ripete come un automa in cerca di qualche spicciolo.
Evitiamo quel non-luogo, le fermate che scorrono con le loro etichette anonime, tutte uguali, che si annunciano con i ciak delle porte che sbattono.
Ci incamminiamo a piedi. Attraverseremo tutta la città, viali, parchi, piazze, semafori, rotonde, incroci, da periferia a periferia passando dal centro. Ci metteremo alcune ore invece che venti minuti, ma ce le vogliamo godere tutte.
Ho perso il conto delle volte che ho tagliato Milano da sud a nord, da est a ovest, che gli ho girato dentro sulla circonvallazione interna o lungo la cerchia dei bastioni, in senso orario o antiorario. Forse mille. Distratte scorribande in metropolitana, a bordo di un bus, di un tram, chiuso all’interno della mia macchina nella bolgia del traffico. Sono sbucato dalle stazioni come una talpa, per andarmi a chiudere in una casa, in un teatro, in un pub.
Questa millesima e una volta camminerò lentamente, come fossi un turista, come quando viaggio e voglio scoprire una metropoli in tutti i suoi angoli.
Decidiamo di guardarci a destra e a sinistra, stupendoci di dettagli o palazzi interi che non avevamo mai notato. Milano ora potrebbe essere Santiago del Cile, Tokyo o Kathmandu.
Iniziamo il viaggio da piazzale Loreto, dove la storia ha ceduto il passo al traffico che gira in una spirale ipnotica. Percorriamo Corso Buenos Aires, la via dello shopping. O meglio della spazzatura. Luci suadenti brillano in un viale dall’atmosfera grigia di un quartiere di periferia. Vetrine di plastica che ammiccano alle persone illudendole che l’abito faccia il monaco. Vestiti e scarpe griffati, finta eleganza su un piedistallo illuminato dai LED colorati, che una volta acquistati zampetteranno tra le cartacce e i mozziconi delle sigarette lungo il marciapiede.
Le persone fuoriescono come formiche dalla metropolitana, camminando di fretta senza guardarsi in faccia, come se stessero scappando da qualcosa che gli corre dietro. Clacson striduli di malumore riverberano tra i palazzi facendo bollire il termometro dello stress. Due studenti distribuiscono volantini, sorridendo alle persone che li schivano come insetti ostili. Le lancette degli orologi stanno correndo più veloci del normale, spinte da una frenesia incontrollabile, che impregna e curva lo spazio-tempo cittadino. Senza accorgerci anche noi abbiamo accelerato il passo.
Giardini pubblici: qualcuno passeggia parlando al telefono, altri si siedono sulle panchine mangiando un gelato o una focaccia, mentre i podisti corrono cercando una bolla d’ossigeno nella metropoli. Quelli in forma superano con slancio quelli che cercano di recuperare la linea, persa nei fast food o nei cibi pronti in quattro minuti, e che ramazzano con i piedi le foglie che hanno già ceduto all’autunno.
E’ l’ultimo sprazzo della giornata, l’ultimo focolaio prima che la città ceda il passo al buio e ai suoi fantasmi.
In Piazza del Duomo i turisti indugiano con il naso all’insù di fronte alla cattedrale; si guardano in giro meravigliati, s’affrettano a scattare le ultime foto, mentre i cinesi cercano di vendergli cesti di cianfrusaglie sottobanco, sottocosto e sottofunzionanti. Da qui a breve la piazza sarà deserta. I senzatetto appariranno come spettri, nascosti nei loro cartoni, flebili ripari per la notte.
La Galleria Vittorio Emanuele è un deja vu di Corso Buenos Aires, dove però lo shopping e i ristoranti sono molto più kitsch, appannaggio dei pochi che se lo possono permettere. Qui, all’ombra del Duomo e del Teatro alla Scala, la moda potrebbe anche sembrare al posto giusto. L’abito nasconde il monaco. Ognuno cammina con addosso la propria corazza cromata, o pelosa, il volto mascherato da un centimetro di trucco.
Continuiamo in Brera, quartiere dell’arte. Cediamo alla tentazione di un pub irlandese. Gli orologi hanno smesso di correre. I tavoli sono circondati di gente che sorride finalmente rilassata davanti ad una pinta di Guinness.
La birra scivola anche nelle nostre gole, mentre i discorsi dal viaggio vanno a sfumarsi sulla nostra vita e i nostri progetti.
Riprendiamo la passeggiata costeggiando la pinacoteca e infilandoci nelle viuzze pedonali, tra gallerie d’arte e locali affollati. Gli indovini hanno piazzato i loro baldacchini coperti di tarocchi e carte magiche. Vorrei fargli leggere il futuro della mia città.
Altri cinesi si aggirano con i loro cestini carichi di cianfrusaglie. La passeggiata Bohémien ci accompagna fino al castello e si dirada velocemente mano a mano che abbandoniamo il centro. Le luci dei locali dissolvono e cedono spazio al buio dei vialoni alberati. In piazza Buonarroti attendiamo il verde del semaforo accanto a due donne in minigonna che discutono in una lingua dell’est Europa. Non stanno aspettando né il verde né l’autobus. La statua di Verdi osserva dal centro della piazza. Forse sta cantando: “La donna è mobile, qual piuma al vento, muta d'accento e di pensiero”.
Un cliente accosta. Di Verdi gli importa poco.
Continuiamo in via Monte Rosa. Quartiere al confine tra il ricco e il decadente. Il via vai di auto si concentra dove alcune altre donne, distinte e ben vestite, attendono i loro clienti. Ne osservo una, bella ed elegante, che indossa gonna corta e giacca nera, su cui si appoggia un caschetto ben pettinato. In un ufficio del centro con i vetri a specchio sembrerebbe una donna in carriera, una modella, forse una star dello spettacolo. Invece batte sul viale, fumando una sigaretta.
La via continua stretta dall’abbraccio dei palazzi. Le finestre sono tutte illuminate. Immagino le persone all’interno, tutte sedute nella stessa direzione, zitte, sullo stesso divano, davanti allo stesso schermo che gracchia propaganda, ammazzando le ultime ore, gli avanzi della giornata che muore. Le lancette ora si trascinano stancamente.
Procediamo. Siamo ormai in vista dello stadio. La prostituta all’angolo è grassoccia, ha una minigonna vertiginosa e una calzamaglia bucata; si gira mentre si mangia un’unghia, ammiccando noi due “turisti” che passeggiano per la città. Le automobili procedono a rilento. Una si ferma: il finestrino si abbassa, e dopo un veloce scambio di battute la ragazza sale. Osserviamo l’auto ripartire e allontanarsi. Non è la scena di un film che finisce con la fuga d’amore di due innamorati, bensì la cruda realtà della città, quella vera, quella fuori dagli schermi e dai reality show: un ragazzo in cerca di un’illusione d’amore, e una donna che vende il corpo per campare.
Intravediamo la nostra macchina, rimasta parcheggiata sola soletta in fondo alla via.
Chiudiamo le portiere e per un attimo restiamo in silenzio. Il viaggio è finito. Siamo di nuovo due esseri anonimi che corrono in una scatola di metallo verso un altro punto della città.
Marco Grippa
Il paradiso incompreso di Capo San Giovanni
Nella mia lingua c’è un’espressione che allarga il cuore.
Anìfti, cardìamu, apriti, cuore mio.
Ogni volta che sono felice, così felice da sentirmi tutt’uno con il mondo, le persone, le piante che respirano attorno a me, ripeto questa espressione.
Per ciascuno di noi esiste un luogo, un’azione, un ricordo che ci fa dire Anìfti, cardìamu.
La mia terra è generosa e molte volte mi ha fatto aprire il cuore di felicità e soddisfazione.
Dal mare alla montagna innumerevoli sono i luoghi che incantano e incatenano.
I paesaggi hanno un’anima e la raccontano a chi ha la pazienza e il desiderio di ascoltarla.
Hanno bisogno di silenzio i paesaggi, per sussurrare i segreti del tempo.
E anche se cambiano, i paesaggi mantengono una memoria di ferro: la memoria del cambiamento, del passato, del presente e del futuro.
C’è un luogo che mi fa dire anìfti, cardìamu.
Ogni volta che ne sento nostalgia percorro a piedi un lungo tratto di spiaggia.
I miei piedi soffocano i sassolini che a ogni passo si spostano poco lontano, per aprire un varco alla mia fretta.
Il pellegrinaggio laico che compio mi conduce al groviglio selvaggio che è la spiaggia di Capo di San Giovanni D’Avalos a Bova Marina, in provincia di Reggio Calabria. Pochi conoscono questo nome importante dedicato a un santo. Ma tutti sanno cosa sia la Rocca del Capo, il paradiso incompreso e maltrattato, la spiaggia con la grotta e gli scogli superstiti e il fallimento di un tronco di molo che non è riuscito a rovinare il fascino naturale del miracolo.
Anìfti, cardìamu. Apriti, cuore mio.
La roccia che minaccia il mare impedisce al sole di scaldare le cose se non dopo una certa ora.
Per questo motivo la spiaggia di Capo San Giovanni è fresca e silenziosa, interrotta dal singhiozzo dei rari treni che invidiano alla sabbia la vicinanza del mare.
In questo luogo, un tempo, tanti faraglioni affioravano dallo Jonio, piccoli vulcani che accoglievano i tuffi di primavera dei bambini di ieri.
Anche io mi tuffo e nuoto con voluttà, nell’acqua tiepida dalle sfumature che mi confondono nel giorno appena nato. Nuoto verso la Montagna che fuma, dall’altra parte del mare. Fuma rimproveri la montagna, agli uomini diventati ogni giorno più ciechi e più sordi.
Nuoto nell’acqua che cambia colore e sapore, nella tenerezza del giorno appena nato.
Anìfti, cardìamu. Apriti, cuore mio.
E mi concedo una pausa fra le onde ancora addormentate, orfane dei cavalloni di settembre, onde bambine che mi ospitano generose nella seta liquida di sale.
Salgono i miei occhi, percorrono, spuntone dopo spuntone, la Rocca del Capo.
Si fermano sulla chiesetta vuota di preghiere, ammirano la torre di avvistamento posta a guardia dei predoni del mare, si inchinano alla Vergine che benedice e protegge questo borgo di pescatori in riposo forzato.
E’ in questo punto che ripeto, come un mantra, anìfti, cardìamu. Apriti, cuore mio. Apriti al mondo, alla memoria del tempo, alle storie della lingua del mare e dei monti. Apriti a chi ama la bellezza e ogni anno trascorre almeno un giorno a Capo San Giovanni, dall’alba al tramonto che sfuma dietro il vulcano assopito.
Da questo punto, nella coscienza liquida delle verità, conto sulle dita di una mano i faraglioni superstiti alla guerra dello sviluppo. Abbattuti per lasciare spazio a un porto che non ha ancora visto la luce. Di quel tempo non ricordo nulla. Solo un sogno che emerge sbiadito dalle foto che gli abitanti del paradiso incompreso custodiscono con gelosa cura e silenziosa vergogna.
L’ecomostro ha sostituito la bellezza. Il miraggio dello sviluppo ha seminato il deserto. Capisco la Montagna che fuma che borbotta rimproveri, improperi e maledizioni. Gli uomini si sono condannati alla mostruosità, senza ottenere nulla in cambio. Hanno lasciato agire indisturbati i mercanti, nel tempio del dono e del miracolo.
Non riesco a immaginare un luogo più bello e più sfortunato di questo.
Perciò mi avvicino con dolore e tenerezza e benedico ogni granello di questa sabbia, calpestata con la rabbia dell’ingratitudine. E racconto la tua storia a chi viene da lontano e rimane incantato da tanta bellezza.
Ma i miracoli si compiono ancora su questo paradiso incompreso ma non ancora distrutto.
Sul velluto tiepido della spiaggia le tartarughe marine depongono la vita, sfidando l’eco-mostro e lasciando alla cura dei giusti la schiusa dei piccoli.
E spero che il primo pensiero delle tartarughine impacciate dai granelli di sabbia, nella prima maratona verso il mare, sia proprio anìfti, cardìamu. Apriti cuore mio. Alla bellezza.
Maria Natalia Lirti
Da Bari Vecchia a Lama Balice, il passo è slow
Per il primo appuntamento hanno scelto u’ Castidd, quel Castello Svevo che, maestoso ed angolare, si erge tra Bari Vecchia e il porto, corrente di popoli e culture. Poco più in là, sotto il portico della rinomata via delle orecchiette, detta anche Iarch Vasc (arco basso), alcune donne iniziano a preparare i loro utensili per impastare strascinate, orecchiette appunto, e minuicchi (cavatelli) alla mercé di turisti e passanti. Ognuna allestisce il suo banchetto sul pianerottolo di casa. Mette fuori prima una sediolina in vimini e legno; poi l’altra; un paio di sgabelli su cui poggiare la spassarol, la rete per far asciugare la pasta; il tavolino con u’ tauirr, tavoliere per lavorare la massa; l’acqua; la semola e il coltello dalla lama buona per dare la giusta curvatura e striatura all’orecchietta. Sullo sfondo, le campane della vicina Cattedrale invitano alla messa domenicale; mentre qualche stradina più giù, nella Basilica, S.Nicola accoglie cristiani, atei, e fedeli altrui. Con in mano due vite del tutto diverse, Chirine e Zino aspettano Carlo e Micaela sul muretto che si affaccia nel fossato del Castello. Della città e di quello che avranno in comune con i baresi non sanno ancor nulla. L’aria che iniziano a respirare è la stessa della loro casbah di Algeri; sa di Mediterraneo. La brezza marina sfiora questi passi curiosi e stranieri sulle chianche di piazza Mercantile, fintanto che Carlo e Micaela traducono dal vernacolo ai loro amici i dialoghi così singolari delle commari al balcone. Tra vicoli ciechi e viuzze, è proprio il profumo di pulito e gli odori forti di svariate pietanze caserecce, come il calzone di cipolla, che indica loro l’itinerario gastronomico, artistico e culturale più sostenibile da seguire. Sotto gli archi, con le iconografie di Madonne e Santi ornati da processione, è un susseguirsi di volti, sguardi, e schiamazzi di bambini. Da lontano, le urla dei pescatori di N-derr la lanze, la zona del vecchio porto, regalano sorrisi ai turisti e pesce crudo agli affezionati. Poi accompagnano il ciclista di turno che svolta a destra per proseguire sul lungomare che giunge sino a Palese. Qui, alle spalle dell’aeroporto, sulla strada che porta a Bitonto, con i miei ex compagni di scuola elementare scegliamo di incontrarci, dopo trent’anni, nei paesaggi bucolici che durante l’infanzia ci sono appartenuti in una geografia che non è più la stessa. E’ ben altra di quella che i nostri occhi oggi vivono. Per non sentirci già troppo adulti, ma ancora bambini, vogliamo rincorrere i ricordi lungo l’antico fiume Tiflis. Ormai prosciugato, si ricompone solo nella magia delle abbondanti piogge stagionali. Siamo nel cuore del Parco Regionale di Lama Balice, quello che, da piccoli, chiamavano semplicemente Serre, così come ci avevano insegnato i nostri genitori e gli zii amanti della campagna; perché la bellezza di Lama Balice non era ancora stata protetta dalla legge. “All’epoca avevamo una grande ricchezza e non lo sapevamo”, sussurra qualcuno dei miei ex compagni di scuola. Il parco di Lama Balice ha un fascino selvaggiamente raro. Ci cattura. Sempre più bisognoso di essere protetto dall’abusivismo edilizio dei dintorni, dai rombi degli aerei che atterrano vicino, e dalla noncuranza di passanti che dissipano rifiuti come fosse discarica, custodisce in segreto una biodiversità come pochi. Sosta obbligata per passaggi brevi o prolungati di un’avifauna mozzafiato, nel parco di Lama Balice, averle, falchi pellegrini, voltapietre, corrieri grossi provenienti dalla tundra artica, e aironi cenerini sono di casa. Orizzonti irregolari si alternano alla vista: canneti, olivastri, carrubi, e un infinito mosaico olfattivo – cromatico di piante aromatiche e medicinali. Forte è l’essenza della menta, così come del timo, della malva o della ruta, mentre tra i tanti colori spiccano l’arancio della calendula, i fiori gialli del trifoglio, e le margheritine della camomilla. Quasi fossero tanti piccoli soli illuminano i campi incorniciati come dipinti nelle perfette linee e sfumature dei muretti a secco a ridosso del grande ponte. Un tempo questo era la strada principale che da Palese conduceva alla vicina cittadina di Modugno. Ci incamminiamo chiacchierando tra rigogliosi lecci, querce spinose, biancospini, corbezzoli, e sullo sfondo intravvediamo i casali medievali e le masserie, come la bianca e solitaria Villa Framarino, oggi centro di documentazione e ricerca. Poi, sulle rupi e nelle valli più scoscese, dove dominano il fico d’India, il cappero e gli asparagi selvatici, improvvisamente, ci nutriamo di silenzio. Il sentiero, costeggiato da cespugli di more, vegetazione varie e cannucce di palude, chiara testimonianza di accumuli di acque sotterranee, ci porta nella Jurassic barese. Ci piace chiamarla così perché, al centro di una cava ormai dismessa, ci sono i resti di una spinata di marea fossilizzata del periodo Cretaceo dove, di recente, sono state rinvenute un’infinità di impronte di dinosauri sia di specie carnivora che erbivora. Lo strapiombo della cava e le striature della roccia fanno da confine tra il cielo e questa terra, la cui natura carsica ha modellato ipogei, cavità naturali, e grotte di varie grandezze che ci fanno viaggiare sino al Paleolitico. Terminiamo il tour con una sosta alla Chiesetta romanica dell’Annunziata, lì dove, ogni domenica dopo Pasqua, come tutti i palesini, bitontini e modugnesi, facevamo la scampagnata con le nostre famiglie.
Il cielo di Lama Balice è gran fonte di ispirazione per tutti quelli che, come noi vecchi amici, hanno ancora un pozzo di ricordi da esplorare e qualche sogno ever green per il quale varrebbe la pena spiccare il volo. Così seguiamo, ancora silenziosi, i volteggi di una poiana e ce ne facciamo una ragione. Poi qualcuno si ferma davanti a un cardo mariano; ne togli abilmente le spine e ne gusta appieno il sapore. E’ lo stesso del tempo in cui, da piccoli, qualcun altro lo faceva per noi.
Silvia Rizzello
Cavalcata storica alla ricerca del tesoro tra i misteri dell’Alto Monferrato
Ogni anno arriva il giorno in cui i raggi obliqui del sole raggiungono una nicchia nel muro del castello medievale di Lerma, illuminandola per qualche breve attimo. In quei momenti i rubini delle tre rose d’oro nascoste in uno scrigno di cristallo dal 1565 avvampano inondando le mura del maniero di una luce infuocata. Il fenomeno dura talmente poco che in ben quattrocentocinquant’anni nessuno, rabdomanti compresi, è mai riuscito a individuare la nicchia dove Isabella Corvalan, dama d’onore della regina di Castiglia avesse nascosto quel tesoro.
Siamo nell’Alto Monferrato, territorio di confine tra il Piemonte e la Liguria, noto storicamente come l’Oltregiogo dove secoli fa passavano i muli carichi di sale provenienti dalla riviera e diretti nella pianura Padana. Quando si parte da Milano col desiderio di mare nel cuore, il paesaggio cambia proprio qui e nel giro di pochi chilometri le infinite distese del Piemonte lasciano il posto alle colline e alla vista di montagne blu in lontananza. La monotonia viene piacevolmente interrotta dalla visione di case colorate, di castelli che dominano le vallate e di tanto verde. Il mare è vicino, ma anche no. Basta fare una volta sola la strada statale del Turchino, nel tratto che da Acqui Terme porta a Genova Voltri, per rendersi conto che il traguardo del mare è come un amore da conquistare: non c’è nulla di scontato e la strada è piena di curve dietro le quali non sai mai cosa trovi. Può esserci una frana, un capriolo che sbalza fuori dal bosco, o la vista inquietante del letto secchissimo di un torrente. Ma la strada non ti fa mai perdere di vista ciò che ami, e non smette mai di stimolare la tua fantasia con la sensualità della foltissima vegetazione dei boschi, con il profumo inebriante dell’aria, con i contrasti forti tra il verde scuro degli alberi, il grigio quasi bianco del fondale del torrente e il rosa delle case inerpicate in collina.
Le rose d’oro della dama d’onore sono ben nascoste, eppure è come se quei misteriosi lampi color rubino accompagnassero sempre chi giunge da queste parti: ci sono tesori da scoprire in ogni paesino e spesso si trovano proprio all’ombra di un affascinante castello. Anche se molte persone arrivano qui in auto, questo territorio attira anche numerosi viaggiatori che prediligono mezzi di trasporto green a cominciare dai propri piedi, ma per le strade strette e tortuose che collegano i vari borghi si incontrano spesso anche dei ciclisti che seguono le orme dei grandi campioni originari di questa zona come il novese Girardengo e Fausto Coppi, nato a Castellania.
C’è poi, chi preferisce calarsi nelle atmosfere medievali facendo come Aleramo, che nel secolo X fece nascere il Monferrato in tre giorni di cavalcata sfrenata compiuta per amore. Il giovane discendente di una famiglia nobiliare della Sassonia, rimasto orfano poco tempo dopo essere nato, divenne un coraggioso scudiero e venne accolto alla corte dell’imperatore Ottone. La sua avventurosa storia d’amore con Adelasia, la figlia dell’imperatore, sfociò inevitabilmente in una fuitina durata anni, e giunse a lieto fine quando Ottone gli disse: “Tu sei un bravo cavaliere. Salta in sella e inizia a correre. Tutte le terre che in tre giorni di cavalcata riuscirai a circondare, saranno tue”. Il territorio che Aleramo conquistò in questo modo venne chiamato Monferrato perché durante la cavalcata il giovane fu costretto a ferrare il proprio cavallo con un mattone, che nel dialetto locale si chiama mun.
Prima ancora che s’innamorasse di Adelasia, per qualche tempo il compito del giovane Aleramo presso la corte dell’imperatore era quello di servire a tavola. Se vivesse oggi, la corsa del bel giovanotto si trasformerebbe in un rilassante trekking e probabilmente il suo cavallo non farebbe in tempo a stancarsi tra una sosta e l’altra, visto che il suo padrone, amante della buona tavola, non resisterebbe al richiamo delle bontà culinarie tipiche dei vari borghi. Ad annunciare l’arrivo della primavera nell’Alto Monferrato è ogni anno la grande manifestazione enogastronomica Paesi e Sapori, organizzata dalla Pro Loco di Ovada e del Monferrato ovadese, che anticipa le sagre della bella stagione. Possiamo idealmente partire da lì accompagnati da Aleramo per un itinerario gustoso.
A Molare, borgo noto anche per il Santuario delle Rocche, eretto a seguito di un’apparizione mariana del Cinquecento durante la quale la Vergine avrebbe riempito il cesto di una povera contadinella di pane appena sfornato, possiamo gustare i fiazein, ovvero i focaccini all’antica che magari facevano parte del regalo leggendario del miracolo. A Cremolino, il suggestivo borgo medievale che domina delle ampie vallate coltivate a vigna, si può assaggiare il coniglio alla cremolinese, mentre a Rocca Grimalda, altro storico borgo il cui castello si erge su uno sperone roccioso mozzafiato, Aleramo ci servirebbe un bel piatto di lasagne nella peirbureira, un saporito piatto con i fagioli che potremmo gustare ammirando la danza del corteo mascherato della Lachera, il celebre rito arcaico carnevalesco del paese.
Spostandoci verso Nord non è da escludere di poter avvistare addirittura qualche strega in volo visto che ci stiamo avvicinando a Carpeneto, paese noto oltre che per la sua notevole tradizione vitivinicola, anche per la sua vocazione magica. Il noto demologo carpenetese dell’Ottocento, Giuseppe Ferraro, raccolse in diversi volumi le usanze, i canti, le leggende e perfino le particolarità della parlata monferrina. La sua opera è paragonabile a quella che compì Giuseppe Pitrè in Sicilia, di cui Ferraro era amico. Le storie da lui raccolte sono popolate anche da una considerevole sfilza di streghe, di piante e di animali magici, a dimostrare l’esistenza di una tradizione popolare dal fascino magico, che a tavola viene rappresentata dal minestrone delle streghe, da far seguire dai più consueti, ma non meno favolosi salamini al Dolcetto. Passando dall’altra sponda del torrente Orba, ai piedi del castello di Tagliolo Monferrato possiamo gustare un fumante piatto di agnolotti, specialità tipica per eccellenza del Monferrato. Bastano pochissimi chilometri di strada per fare la conoscenza di Silvanino, il burattino di legno e stoffa che ogni estate chiama a Silvano d’Orba i bravi burattinai d’Italia per una grande festa colorata i cui protagonisti sono i bambini e i burattini, mentre i grandi possono farsi venire il buon umore anche degustando le grappe delle celebri distillerie silvanesi. Dopo la bevanda che i pellerossa chiamavano acqua di fuoco, nel borgo accanto, a Castelletto d’Orba, ci si può assetare invece con l’acqua quella vera e purissima che sgorga dalle numerose fonti del paese.
La caccia al tesoro nell’Alto Monferrato si colora anche di riflessi argento e oro: l’argento è quello delle trote che popolano le acque limpide dei torrenti che nascono tra le incontaminate montagne liguri e che formano delle stupende spiaggette immerse nella natura, mentre l’oro che luccica da queste parti è proprio quello vero. La ricerca dell’oro in questa zona risale ai tempi dell’Impero Romano e continua a tutt’oggi grazie agli instancabili appassionati che nei fine settimana si calano nei Klondike monferrini per tornare spesso con delle preziose pepite in mano.
Il nostro giro con Aleramo ci riporta nel borgo da cui siamo partiti. A fine giornata, seduti nella veranda dello storico ristorante Italia di Lerma, ci sorprende la visione di una calda luce color rubino. Resta un mistero se si tratta della luce delle leggendarie rose d’oro o di quella del buon Dolcetto d’Ovada nei nostri bicchieri.
Francesca Bertha
Postfazione
Quell'Italia ancora sconosciuta
Bisogna che mi decida finalmente a scrivere qualcosa sulla terra dove sono nato. Ne ho la voglia da parecchie centinaia d’anni ma non riuscivo mai a partire. Perché si dà questo curiosissimo caso: se qualsiasi italiano di qualsiasi regione proclama che la sua terra è stupenda e che ci sono meravigliosi monumenti e meravigliosi paesaggi e così via, nessuno trova niente da dire. Ma se io dico che la mia terra è uno dei posti più belli non già dell’Italia ma dell’intero globo terracqueo, tutti cascano dalle nuvole e mi fissano con divertita curiosità. La mia patria infatti si chiama Belluno e benché sia capoluogo di provincia, vado constatando da decenni che quasi nessuno tranne i bellunesi, sappia dove sia (e molti anzi ne ignorano perfino l’esistenza).
Dino Buzzati, La mia Belluno
Che forma ha l'Italia che conosciamo? I dati di un recente sondaggio hanno ridisegnato ciascuna delle venti regioni d'Italia più o meno grandi in base al numero di turisti che la visitano ogni anno. Il risultato è un'immagine sorprendentemente deforme del nostro stivale, con un grande Veneto, rilevanti Trentino, Toscana, Lazio e Lombardia. Piccole piccole la Valle d'Aosta, l'Emilia Romagna e la Campania. E poi tutto il resto scompare, quasi non esistesse: Le Marche con le sue dolci colline e i borghi incantati, la Calabria con le sue coste selvagge e i parchi naturali, la Puglia con le sue tradizioni e i cibi incomparabili, l'Abruzzo con le sue misteriose città fantasma, la Liguria con il suo entroterra verde e il mare cristallino, il Molise e la Basilicata con i loro tesori nascosti.
C'è l'Italia del turismo di massa, dei tour organizzati e delle gigantesche navi da Crociera, che non si spinge oltre Venezia, Firenze, Milano e Napoli. La stessa Italia che abbiamo visto promossa alla fiera internazionale del Turismo che si è chiusa ieri a Berlino, dove il viaggio è un business per i grandi tour operator, le catene alberghiere, le compagnie aeree e le navi da crociera.
E poi c'è un'Italia misteriosa e nascosta che in pochi conoscono davvero e che quasi nessuno promuove. Quella delle realtà virtuose ed autentiche disseminate come perle preziose nel nostro territorio: piccoli bed & breakfast che stanno investendo nella sostenibilità ambientale, alberghi diffusi che hanno recuperato borghi fantasma donandogli nuova vita, agriturismi biologici che hanno ideato esperienze di viaggio lento nella natura, trekking con gli asini, lavoro in fattoria, rifugi sugli alberi dove si può persino dormire, e tanto altro.
Per noi il turismo responsabile avviene attraverso queste realtà virtuose, che esistono e che in pochi conoscono, e che per emergere hanno bisogno di essere in rete. Ecobnb tenta di creare questa rete, per costruire un punto di incontro tra chi vuole viaggiare in modo responsabile e le strutture ricettive che stanno investendo in un futuro migliore. Per permettere che una parte sconosciuta e virtuosa d'Italia sia più facile da scoprire. Cliccando su Ecobnb.com rimarrete sorpresi da quante possibilità di turismo sostenibile esistano in Italia, che nemmeno immaginavate. Potrete scoprire un'antico borgo trasformato in albergo diffuso, un bed & breakfast a zero emissioni, un agriturismo biologico dove si può anche mangiare vegano, un igloo (di ghiaccio, si!) o una casa sull'albero dove dormire sospesi nella natura.
Un anno fa circa, esausti delle guide turistiche di un'Italia stereotipata che va da Canal Grande a Piazza della Signoria (e in mezzo il nulla), sognavamo di proporre una guida più autentica del nostro paese, che scoprisse luoghi e atmosfere al di fuori delle solite rotte turistiche. L'idea ci piaceva molto, ma eravamo anche consapevoli che gli autori di questa guida ad un'Italia che in pochi conoscono non potevamo essere noi, e nemmeno scrittori esperti. Ci siamo chiesti: chi può raccontare una città lontano da stereotipi e luoghi comuni, svelando angoli nascosti e punti di vista meno noti? La risposta è stata: chi i luoghi li conosce davvero perché li ha vissuti, per qualche giorno o per una vita intera. Così, è nata l'idea di un premio letterario e fotografico dove gli abitanti delle città potessero diventare reporter del loro territorio e svelare, attraverso le loro parole o i loro scatti fotografici, un'Italia meno nota e più autentica.
Quale migliore occasione per lanciare questo Premio del festival del turismo responsabile IT.A.CA', migranti e viaggiatori?
IT.A.CA' è infatti un momento di riflessione sui “viaggi corti” nel proprio territorio, dentro la propria città, per scoprire la sempre maggiore diversità etnica e culturale, per vivere l’emozione del viaggio senza andare lontano. Perché il viaggio responsabile parte da casa e arriva a casa. Una qualsiasi casa, una qualsiasi “Itaca” da raggiungere, dove più che la meta conta il percorso e il modo in cui ci si mette in cammino.
Così è nato questo Ebook, che raccogliere le migliori opere del Premio “Racconta la tua città”, per disegnare un'Italia che in pochi conoscono, aprendo curiose finestre su angoli meno noti del nostro paese. Pezzi di vita quotidiana raccontati dai loro abitanti, storie, passeggiate, avventure tutte da scoprire.
Ringraziamenti
Grazie di cuore a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo ebook.
Luigi Alfieri, per il meraviglioso racconto di Parma che ci ha regalato, con il quale abbiamo deciso di aprire il libro, leggendolo ci si sente già in viaggio.
Sara Ombellini, per aver contribuito alla fase di ideazione e realizzazione del Premio.
Pierluigi Musarò, Sonia Bregoli e tutto lo staff di IT.A.CA' migranti e viaggiatori, per aver condiviso l'idea e lanciato il contest nel programma del festival del Turismo Responsabile.
Anita Cason, per aver contributo con pazienza ed entusiasmo alla realizzazione dell'ebook.
L’Hostellerie le Lièvre Amoureux in Valpelline (una valle quasi soconosciuta della Valle d'Aosta), il resort La Francesca immerso nel verde della costa ligure a pochi passi dalle Cinque terre, il B&B Dormì e Disnà nel cuore di Fornesighe (Val di Zoldo, Belluno), Villa Chele una suggestiva abitazione in legno e sasso nel villaggio di Pralongo (Val di Zoldo, Belluno), La Chambres d’ hotes “Les Clés du Paradis” un B&B ecofriendly a Cretes a Bionaz (Valpelline), per aver donato i bellissimi weekend premio per gli autori.
Tutti gli scrittori e fotografi che hanno partecipato al premio, raccontando attraverso le loro parole e i loro scatti, una parte di Italia meno nota, che abbiamo avuto voglia di riscoprire.
Tutti voi che leggete questo ebook, e che avrete voglia di condividerlo, o magari di raccontarci altre città e angoli d'Italia che meritano di essere riscoperti!